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“Gli anni dei sogni brevi” di Franco Pagnotta: tra strade strette e polverose torna a battere forte il cuore

Creato il 21 marzo 2016 da Alessiamocci

Nato nel 1951 a Filandari (Vv), Franco Pagnotta è stato docente fino al 1990 in Lombardia poi ancora nella sua Calabria, dedicandosi sia alla scrittura, con opere di poesia, narrativa, teatro dialettale, che all’attività giornalistica. A gennaio 2016 ha pubblicato Gli anni dei sogni brevi (Edizioni Thoth), un vero e proprio viaggio di ritorno alla sua terra d’origine.

Un itinerario a ritroso nel tempo, in spazi ben definiti, ben noti, sicuri, si compie con totale naturalezza: la memoria ha custodito ogni esperienza, ogni dettaglio e i suoi contorni con cura e ora, prima che questo piccolo mondo un po’ antico scompaia per sempre, ricuce ogni possibile strappo col passato, con garbo, rispetto e amore.

La narrazione di Pagnotta procede limpida, per piccoli quadri, tutti tra loro collegati dalle personali e familiari vicende, nello spirito comunitario, semplice e solidale di un paese della Calabria che fu, simile in tutto, o quasi, a gran parte dei paesi e delle contrade del profondo sud dell’Italia tra anni ’50 e ’60.

L’autore ripercorre le fasi dell’infanzia, della fanciullezza e adolescenza, con qualche breve cenno soltanto all’età adulta, quasi vissuta come una colpa da espiare nei confronti del suo mondo, della sua terra che, come il padre, gli zii, tanti amici e conoscenti prima di lui avevano dovuto, temporaneamente o definitivamente abbandonare, alla ricerca di lavoro.

L’emigrazione come destino spesso crudele, sradicamento, perdita d’identità e affetti, di contro a un orizzonte che ora, dalla lente distanziatrice del tempo, è mostrato forse più bello, idillico e sopportabile di quanto in realtà non fosse. Ma non è ingenuo né stolto Franco Pagnotta: sa bene quanto dolore, quanti sacrifici, rinunce, disillusioni siano costati a generazioni di cafoni delle terre quegli spazi di tempo a volte troppo lento, quei colori di un cosmo in cui ogni cosa aveva il suo colore, ogni mamma aveva un sogno per i suoi figli, i figli avevano i loro piccoli sogni di cose semplici, anche se non sempre raggiungibili, ma tutto si proiettava in un tempo mai troppo lontano.

Erano anni di vita alla giornata e la proiezione massima era di stagione in stagione, secondo i cicli della terra e della produzione che era, poi, lo scandirsi della vita, della sopravvivenza stessa. Meden agan, non si desiderava il troppo, ci si accontentava e si desideravano comunque cose conosciute, poche, dunque. E l’anima vibrava e si addolciva per poco, un tenero abbraccio, un carezzevole sguardo, forse raro, ma per questo ancor più desiderato, della madre, del padre.

E se allora i bambini ogni sera, nell’ascoltare le storie che gli adulti ripetevano da generazioni ai pargoli prima di andare a dormire, aspettavano sempre che arrivasse il finale bello e questo non arrivava mai perché quelle favole erano metafore della vita contadina e cafona, oggi Franco è cresciuto e con la sua penna ha raccontato un altro finale, di una storia forse uguale a tante altre che ha sentito, ma che ha dalla sua parte un elemento in più: quello della comprensione che mancava all’età fanciulla.

Se il vocabolario era povero, come la vita, gli sguardi dicevano ciò che i silenzi solo in parte potevano nascondere. Tutti avevano un cuore, e in tutti lo si vedeva… ai poveri erano proibite anche le parole. Tuttavia gli occhi sapevano guardare tutto con meraviglia, negli sguardi c’era un mondo, ci si sapeva stupire per poco e volare con l’immaginazione. Un patto segreto d’amore tra la terra e i suoi figli, spezzato spesso per cercare una via d’uscita alla povertà estrema, fine di una, di molte favole che nessuno ha più raccontato.

In un mondo in cui tutto era un po’ poco, si parlava poco del domani: nulla andava buttato, neanche il sogno di un domani migliore.

Pagine tutte da assaporare, intrise di magia, verità, poesia, fatte di cose semplici, d’affetti forti, capaci di fare la via del ritorno verso casa, quello vero, un ritorno del cuore nella casa dei suoi giorni più veri: non conta più quanto tempo è passato. Questa è pura catarsi e Pagnotta l’ha realizzata per sé e per altri cento, mille cafoni della terra: no, loro non l’hanno mai lasciata. Lei nemmeno li ha lasciati: forse è lei il vero cappotto verde della storia.

Written by Katia Debora Melis


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