Titolo: Gli anni della peggio gioventù
Autore: Giampiero Mughini
Editore: Mondadori
Anno: 2010
La mia generazione ha perso. Questo cantava quell'indimenticabile artista di nome Giorgio Gaber in una delle sue ultime incisioni. Per fortuna, aggiunge Giampiero Mughini in un passaggio di questo libro.
Un libro sofferto, sincero in cui Mughini traccia un vero e proprio bilancio dell'esperienza di Lotta Continua, partendo dalla sua vicenda personale e soffermandosi lungamente, come già si può evincere dal titolo, sul clima socio-politico a cavallo tra anni Sessanta e anni Settanta, periodo in cui, come noto, maturò uno dei più gravi ed efferati delitti che hanno sconvolto il nostro Paese: il delitto del Commissario Luigi Calabresi.
L'Autore, che all'epoca dei fatti, dopo aver fondato "Giovane critica", collaborava come direttore responsabile di alcuni giornali provenienti dall'area di Lotta Continua, descrive in primis il clima che animava il movimento Lotta Continua dopo la strage di Piazza Fontana e quindi la morte, pochi giorni più tardi, dell'anarchico Pinelli.
Lotta Continua, secondo le parole dell'Autore, reagisce alla morte di Pinelli creando un clima di odio e di veleni verso il dott. Luigi Calabresi, diffamandone vilmente la figura e accusandolo di essere materialmente l'assassino dell'anarchico, quando invece il Tribunale milanese, nel 1975 accerterà che la causa della morte era da ravvisare piuttosto in un malore del ferroviere. Mughini, a tal proposito, riporta alcuni passaggi della sentenza che, per inciso, ricorda il percorso argomentativo adottato da una delle più influenti e apprezzate sentenze delle Sezioni Unite penali degli ultimi dieci anni, la cosiddetta sentenza Franzese, secondo cui, semplificando estremamente, in assenza di reali decorsi causali alternativi, non resta che assolvere l'imputato, così come impone la nostra Carta Costituzionale.
Prosegue poi il Mughini. La veemente protesta di Lc trova terreno fertile in alcuni settori della cultura italiana, la quale si schiera immediatamente contro Calabresi. "L'espresso", infatti, pubblica un appello contro il commissario, raccogliendo le adesioni di alcuni influenti intellettuali italiani, tra cui Paolo Mieli, Umberto Eco, Giuliano Montaldo, Eugenio Scalfari, Carlo Rossella, Pier Paolo Pasolini, Dario Fo, il quale, inoltre, a partire dal 1970, inizia a portare in scena una delle sue pieces teatrali più controverse, "Morte accidentale di un anarchico", in cui Calabresi viene definito "il commissario girocollo".
Qualcuno, come ad esempio Paolo Mieli, negli anni seguenti, con grande umiltà, si vergognerà di quel gesto, altri no. A tal proposito, lascio parlare Umberto Eco: "Oh certo, con il senno di poi, i buoni borghesi parigini non avrebbero neppure chiesto la costituzione civile del clero, se avessero saputo che si sarebbe arrivati al Terrore".
Ma la protesta non si ferma alle parole e agli appelli: Mughini infatti chiarisce espressamente che numerosi esponenti dell'organizzazione erano tutt'altro che contrari all'uso della violenza, che sfocia appunto nel barbaro assassinio del commissario, freddato una mattina di maggio del 1972 in via Cherubini a Milano, appena sotto casa.
In tali frangenti, l'Autore è molto abile nel giustapporre le due facce della violenza: la violenza fisica, che contraddistingue l'atto dell'omicidio, e la violenza morale, forse agli occhi del lettore ancor più disturbante, rappresentata dagli applausi di alcuni ambienti della sinistra e di alcuni studenti al momento in cui apprendono della morte.
Passano sedici anni. Siamo nel luglio del 1988. L'omicidio è ancora senza movente e senza colpevoli quando lo scenario si arricchisce di un nuovo personaggio. Si chiama Leonardo Marino. E' stato un esponente minore di Lc ma, una volta sciolta l'organizzazione, si trova in una grave crisi esistenziale oltre che economica.
Nell'estate del 1988 Leonardo Marino apre lo scrigno della sua coscienza e racconta ciò che sa di quella mattina milanese del 1972. Stando al racconto di Marino, le cose sarebbero andate così: a sparare al dott. Calabresi sarebbe stato Ovidio Bompressi; lui, Marino, sarebbe stato l'autista pronto alla fuga da via Cherubini, fino alla vicina fermata della metropolitana; Giorgio Pietrostefani (che, nel 1988, è un influente dirigente ENI) l'ideatore del folle piano che avrebbe avuto il nulla osta, nel corso di un pomeriggio pisano dedicato alla memoria di Serantini, di un personaggio tanto influente nella vita di Lc quanto discusso e controverso nell'opinione pubblica: Adriano Sofri.
Si apre un lungo processo che durerà dal 1988 al 2003; un'odissea giudiziaria, non priva di polemiche, che riconoscerà i quattro colpevoli dell'omicidio. Quindici anni in cui l'opinione pubblica italiana si spacca in due correnti: gli innocentisti, che sostengono che Marino è un fallito, un perdente che si è inventato tutto, e i colpevolisti, che, al contrario, non hanno il minimo dubbio sulla responsabilità dei quattro e, in particolare, sulla colpevolezza di Sofri.
Mughini nei primi anni Novanta è estremamente convinto che il leader di Lc sia innocente; poi, dopo aver letto la sentenza di primo grado, le sue convinzioni iniziano a vacillare. Mantiene sempre un atteggiamento di profondo rispetto, affetto e stima per Sofri (del resto, una delle più belle pagine del testo riguarda la distinzione, ripresa pari pari da un testo del 1995 dello stesso Sofri, tra il c.d."nodo", che avvolge e tiene ma che può essere sciolto e non lasciare tracce, e il c.d. "chiodo", che trafigge, fa male e lascia una traccia non più eliminabile) ma al contempo non esita ad ipotizzare almeno una sorta di responsabilità morale del leader di Lc per l'omicidio. Responsabilità che esprime così: "Se tu fossi Dio e mi chiedessi: E' più probabile che Sofri sappia o che non sappia? Io ti direi che è più probabile che sappia".
A mio avviso comunque, a parlare solamente della questione, peraltro spinosissima, della responsabilità morale e penale di Sofri, si farebbe solo un gran torto al testo e si metterebbero in ombra alcuni aspetti cruciali.
Prendiamo, ad esempio, la descrizione del pentimento di Leonardo Marino; anche in questo caso, lascio parlare il testo: "Quando la festa finisce. Quando si spegne l'euforia collettiva che esaltava ogni gesto del vivere quotidiano purché fatto di concerto con "i compagni [...] Quando chi ti sta attorno non sono più "i compagni" da cui eri portato alle stelle [...] e, invece, Tizio, Caio e Sempronio, le persone in carne e ossa con tutta la loro distanza umana e talvolta il loro dislivello sociale da quello che sei tu adesso, un quarantenne povero e con le pive nel sacco. Quando non hai più bisogno dei "gargarismi" con cui maledire i potenti del mondo, quei "gargarismi" che ti mandavano a letto contento e invece hai bisogno di una fideiussione a garantire un piccolo prestito con cui comprare un camioncino su cui fare e vendere crepes".
Brutale poesia per descrivere un percorso di ritorno a se stessi. Un discorso universale e, quindi, assolutamente valido anche oggi.
Quante persone, in questa confusa epoca che viene definita post-moderna, vengono inebriate e sedotte da attrazioni tanto appetitose quanto effimere, fino ad annullare se stesse e la loro dimensione unica e inimitabile?
Proprio il concetto di persona umana, secondo Mughini, era svanito in quegli anni: chiunque avrebbe ucciso un nemico politico nell'illusione di migliorare il mondo, cercando di raggiungere un ideale paradiso terrestre.
In altri termini, l'ideologia, entità sfumata, astratta ed impalpabile aveva sovrastato l'individuo, il calore e la dimensione umana. Il pensiero aveva smesso di funzionare e aveva lasciato spazio al male banale che, come diceva Hannah Arendt, era tale perché poteva essere compiuto da chiunque e perché era fondato sulla perdita della capacità di riflettere e di pensare da parte dell'agente.
Questo è il messaggio che traspare dal testo, lasciando in secondo piano la pur rilevante questione della responsabilità di Sofri, Marino, Pietrostefani e Bompressi. Se a quell'epoca la figura della persona era stata rimpiazzata dalla figura del nemico, ben venga che quella generazione abbia perso senza possibilità d'appello.