A scrivere sugli anni Ottanta, non ci si stancherebbe mai. Sarà che eravamo dei ragazzini spensierati, sarà che il passato ci strappa quasi sempre un sorriso, sarà che l’ingenuità e l’innocenza di quel tempo non le ritroveremo più. Molti di voi conoscono mio fratello Mario, da 14 anni “esule” (secondo la sua autoironica definizione) a Londra. È più piccolo di me di nemmeno due anni, per cui abbiamo avuto un’adolescenza identica. Ha scritto un pezzo sugli anni Ottanta, che sono felice di riproporre sul mio blog. Chi in quegli anni c’era sorriderà, chi non c’era forse avrebbe voluto esserci. Alcune chicche, tipo quella finale del mangianastri sulle Vespe, le avevo scordate.
Associo gli anni Ottanta alla parola “semplicità”. Nel 1980 avevo 5 anni e grazie al telefilm Spazio 1999, vivevo nella certezza che il mondo sarebbe finito nel 2000. Nel mio cervello da bambino, però, il 1999 era lontano anni luce, perciò non c’era niente di cui preoccuparsi. Non c’erano complicazioni allora. Il mio unico problema esistenziale riguardava la “signora” dell’asilo, la quale aveva notato che ero mancino ed aveva deciso di correggere quel mio difetto, obbligandomi a tenere la mano sinistra dietro la schiena. Sfortunatamente per lei, anche a quell’età facevo di testa mia. A casa scrivevo con la sinistra, pagine e pagine di vocali e lettere dell’alfabeto. All’asilo, tenevo la matita con la destra, ed appena la megera voltava occhio, scattavo dai box con la sinistra. Ero velocissimo. Fui scoperto una mattina d’inverno, ma troppo tardi. Il danno era fatto, non avrei mai scritto con la destra, se non altro per questioni di principio.
La scuola elementare si rivelò una pacchia immane. Il mio professore credeva nell’attività fisica. Ricordo con piacere gli sguardi di invidia degli altri bambini sempre chiusi in classe o nella migliore delle ipotesi in terrazzo mentre noi si giocava per ore in cortile. Le bambine erano delle funambole nel gioco dell’elastico. Noi bambini eravamo impegnati in interminabili partite di pallone, interrotte solo al suono della campanella. Se pioveva, si andava in palestra. Per motivi tuttora a me alieni, io ero il primo della classe, uno status che mi permetteva di esprimere un’opinione su tutto.
Erano gli anni di Dallas, che mia madre guardava religiosamente il lunedì sera. Le attrici avevano delle acconciature impossibili. Quando un giorno il professore mi chiese di dare la definizione di volume, io risposi che un esempio eclatante erano i capelli di Sue Ellen, la moglie ubriaca di JR. Anche da bambino mi dilettavo in associazioni di idee improbabili ma che il mio professore incoraggiava. Quando le disse che ero un creativo, mia madre non dimostrò però nessun entusiasmo. In TV guardavo tutti i cartoni animati, ma poiché Candy Candy, Anna dai Capelli Rossi, Remi e Heidi erano roba da bambini rammolliti, io mi concentravo su Gig Robot d’acciaio, Goldrake e Mazinga Zeta: probabilmente le tette esplosive di Afrodite A, la fidanzata di Mazinga, al giorno d’oggi sarebbero state censurate durante la fascia protetta. Il sabato c’era Fantastico con Pippo Baudo ed Heather Parisi, che non solo era americana, ma era entrata nell’immaginario collettivo perché un gran bel pezzo di figliuola.
In un batter d’occhio mi ritrovai nell’86, in scuola media, corso C, quello d’Inglese. Guardavamo con sufficienza gli sfigati del corso A e B, che studiavano Francese e quindi venivano ritenuti inferiori. Inspiegabilmente, ero ancora primo della classe, ma in realtà ero ignorante come una capra. L’87 è stato l’anno dei miei primi turbamenti pre-adolescenziali. All’improvviso, il mensile taglio di capelli diventò un momento irrinunciabile. Penso che i barbieri di paese fossero responsabili dell’educazione sessuale di intere generazioni di ragazzi. A meno che non si avesse un fratello maggiorenne, era lì che si aveva accesso a materiale VIETATO e fumetti porno. I più popolari erano Sukia, la vampira assetata non solo di sangue, ed Il Camionista, che incidentalmente aveva il mio stesso nome: non vedevo l’ora di farmi crescere i baffi.
Ad 11 anni scoprii la “piazza” (piazza Matteotti) e la mia vita cambiò radicalmente. Si giocava a calcio dalle 16 alle 20, quando mia madre prelevava me e i miei fratelli in Fiat 500. Quelli erano gli anni dei record. Il più eclatante era quello dei giri della piazza in bicicletta senza mani, tuttora detenuto da Calarco. Si fermò a mille per sopraggiunta oscurità. Io detenevo quello del giro della piazza in pattini a rotelle: fermai il cronometro a 17.9 secondi. Talvolta facevamo delle trasferte in pineta, che a suo tempo era un pezzo di bosco, una distesa d’erba ed alberi. Lì, dribblando pure i tronchi, sfidavamo a calcio i bambini “pinetoti”. Il mio albero era però in piazza, sulla sinistra, vicino al muretto, che era un altro punto di incontro dove si svolgevano anche le sfide di briscola. Spendevamo ore arrampicati su quell’albero. Ognuno aveva il suo ramo, sul mio vi avevo inciso il mio nome. Quell’albero lo tagliarono nel 1993: piansi. Quando avevamo fame ci riversavamo sugli orti: eravamo peggio delle locuste e mangiavamo di tutto: ciliegie, prugne, fragole, albicocche, pesche, lattuga, finocchi, fave. Non lavavamo mai niente. Al limite ci soffiavamo sopra. Nessuno è mai stato male, a riprova che l’esposizione allo sporco ed ai batteri tempra il sistema immunitario e che le pubblicità odierne su prodotti che uccidono il 99.9 di batteri dovrebbero essere bandite perché promuovono solo psicosi di massa.
Quelli erano anche gli anni dell’orologio Casio con calcolatrice incorporata, del cubo di Rubik, di jeans avvolti sulle caviglie, di pettinature improbabili e di cinture dalle fibbie pesantissime, armi improprie da dichiarare ai Carabinieri. In paese imperversavano le Vespa 50, rigorosamente truccate. Avrei venduto mia madre per possederne una, con tanto di antenna e mangianastri incastrato nel porta oggetti, così tamarramente geniale che proporrei una raccolta di firme per riproporla. Poi, all’improvviso giunse il 1989, con una tempesta ormonale che mi fece esplodere la faccia. Fu la fine dell’innocenza.
Mi chiamo Mario, ho 37 anni. Negli anni Ottanta ero un bambino. Segretamente, lo sono ancora.