Gli atei lo sono davvero? Mica tanto…

Creato il 08 giugno 2013 da Uccronline

Uno dei punti di forza dell’ “orgoglio ateo”, oltre alla sistematica e aprioristica denigrazione dei credenti, è quello di sentirsi completamente impermeabili al richiamo del sacro e del trascendente. Questo è in contrasto con il concetto di “rivelazione naturale” proprio della teologia cristiana, in base al quale ogni uomo è capace di Dio (capax Dei), dato che sente nel proprio cuore la voce del Maestro interiore (via soggettiva) ed è capace di coglierne le vestigia nella contemplazione del creato (via oggettiva).

Come stanno le cose? Un recente (febbraio 2013) duplice studio pubblicato online dalla rivista International Journal for the Psychology of Religion, ad opera di alcuni ricercatori finlandesi, aiuta a chiarire la questione. In sintesi: anche se non c’è ammissione, gli atei nel profondo del loro cuore e/o della loro testa provano (almeno un po’) rispetto per Dio.

Nello specifico del primo studio, a 29  finlandesi adulti, autoidentificatisi come 16 atei e 13 religiosi (luterani), veniva chiesto di leggere alcune affermazioni misurando la reazione emotiva tramite la conduttività della pelle. Le affermazioni potevano essere in qualche modo blasfeme (p.es. “è colpa di Dio se i miei genitori annegassero”), negative (p.es. “è ok prendere a calci un cucciolo”) e neutre (p.es. “spero che oggi non piova”). La reazione emotiva media per le affermazioni neutre e negative è risultata pressoché simile tra credenti e non credenti. Per le affermazioni “blasfeme”, per quanto entrambi i gruppi mostrassero più disagio rispetto alle altre affermazioni e il gruppo dei credenti mostrasse mediamente più disagio dei non credenti, “tra tutti i partecipanti la religiosità non è risultata statisticamente correlata con la conduttività della pelle [p > 0.16, non significativa]. Questo suggerisce che chiedere a Dio di fare azioni tremende è ugualmente stressante per gli atei come per i religiosi”.

Il secondo esperimento, con 19 giovani adulti atei, cercava di capire se il disagio mostrato verso Dio nel primo studio potesse essere riconducibile all’azione negativa in sé, e non al soggetto coinvolto. In questa fase, alle stesse affermazioni dell’esperimento 1, venivano aggiunte altre affermazioni sostituendo il soggetto “Dio” con “io vorrei”. E in questo caso le affermazioni blasfeme erano più stressanti di quelle neutre [p = 0.044, significativa in quanto < 0.05], negative [0.046] e riferite a sé [0.014].

Lo studio conclude che “complessivamente i risultati mostrano che, mentre credo e comportamenti circa Dio da parte di atei e religiosi sono diversi, questi sono emotivamente eccitati in maniera uguale nell’attribuire a Dio azioni spiacevoli”.

Roberto Reggi


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