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Gli auguri del rettore

Creato il 28 agosto 2010 da Spaceoddity
Pare che la Dott.ssa Barbara Berlusconi si sia sentita rivolgere gli auguri speciali del rettore don Verzè. Non valgono quanto i suoi, ma mi unisco agli auguri, non vedo davvero ragione di negarli. Non conosco la persona in questione e, pur essendo elettore di sinistra, non ho ragione di dubitare dei suoi meriti. Non avrei problemi neanche se fossero superiori ai miei, sono sinceramente contento che ci sia gente in gamba in Italia, questo paese ne ha bisogno.
Gli auguri del rettore
Non ho il minimo dubbio sul fatto che gli auguri siano stati rivolti alla figlia del Presidente del Consiglio, non a Barbara Berlusconi. Che la ragazza abbia intelligenza da vendere, come pare dato il risultato, di sicuro ha mezzi che io non ho e non potrei mai permettermi (pur essendomi stato concesso, dai miei genitori e dai loro risparmi di una vita, di studiare senza dividermi tra lavoro e università). Ma l'università non si basa sui meriti.
Ma questa non è una novità. Qual è l'ambiente di lavoro che si basa sui meriti? Dichiarazioni a parte, nessuno. Il punto è che il centro dell'università non è né la didattica, né la ricerca, elementi per cui si potrebbe, almeno in linea teorica, stabilire delle graduatorie di merito e favorire coloro che hanno ottenuto risultati ragguardevoli nei test di autovaluzione dell'accademia. Per quella che è la mia esperienza, l'università si basa invece sul potere personale, un potere vincolato al capriccio e all'arbitrio di chi lo detiene (e che quindi, a suo capriccio, può perfino farne buon uso, ma non vi è tenuto).
Tolti gli errori materiali, che tutti questi scienziati dovrebbero ben essere in grado di ridurre, una valutazione non solo numerica, ma contenutistica sulla didattica e sulla ricerca dovrebbe essere la base per la formazione di una competente classe dirigente. Rimane il problema che non sempre i migliori ricercatori e i migliori didatti sono buoni amministratori: ma sapranno pur scegliere a supporto i tecnici che ritengono più adeguati a ciò che hanno in mente loro e che, a occhio e croce, dovrebbe essere il progresso scientifico e culturale dell'accademia.Gli auguri del rettore
Non è così. Non è così perché il merito non vale nulla e non è così perché le statistiche sono buone solo a essere stilate e servono a chi ha più potere di coloro che le dispongono. Le statistiche di merito sono un'incombenza di questa burocrazia che affogherebbe le amministrazioni. Solo che la burocrazia diventa burocrazia quando se ne perde il senso e ciò che conta davvero finisce con l'essere altro. Di più, la burocrazia diventa burocrazia quando si sa perfettamente come funziona un meccanismo e si fa di tutto per affogarlo con operazioni non necessarie, di freno.
Per quella che è la mia esperienza, all'università non si cresce affatto, o non per mezzo dell'università (a meno di non considerarla come un centro culturale, ciò che giustifica lo stazionare perenne di molti studenti nelle aule secondarie e non in quelle dove si fa lezione): all'università, quando va bene, si superano esami e si discute la tesi. C'è qualche incontro fortunato che non cambia la sostanza del sistema, nel senso che, per sbaglio, con qualche docente si imparano anche cose importanti.
Da questo punto di vista, l'università è il regno dell'autodidassi, nel senso deteriore del termine. Non ci sono i numeri, le strutture, le menti per gestire tutto l'affollarsi di gente che la invade. E soprattutto non c'è nessuna intenzione di valutare la sostanza delle cose e non i titoli, ovvero la volontà e la capacità di imparare e di fare piuttosto che una generica quanto inutile certificazione delle stesse.
Gli auguri del rettore
Ho letto una volta che, per molti datori di lavoro, la laurea è prova di certe caratteristiche personali più o meno innate o comunque estrinseche all'istruzione ricevuta - tenacia, intelligenza elementare, capacità di relazionarsi ecc. - piuttosto che di conoscenze e capacità acquisite. Non faccio fatica a crederci, se ricordo con precisione una mia collega che, al quarto anno di Lettere, dopo aver sostenuto con esito positivo due esami di Letteratura italiana, all'esame di Letteratura italiana moderna e contemporanea disse di non sapere scegliere un libro da leggere, anche in una ridotta lista mirata.
L'orrore che mi suscitano questo ricordo e il pensiero che questa collega ora possa occupare una cattedra a scuola, una cattedra qualsiasi, dico, non può che spingermi ad appoggiare questa squalifica dei titoli di studio in quanto tali, che non significano nulla. Ma l'eventuale perdita di valore legale è in contrasto con la realtà di un mondo del lavoro in cui il cosiddetto 'lavoro' viene considerato solo occasione per una busta paga in spregio per qualsiasi considerazione di produttività. Mi pare ovvio che la concezione del lavoro debba cambiare, ma poiché al momento è questa, con questa ci si deve relazionare, cercando di rivoluzionarne dall'interno i vizi e i meccanismi intrinseci.
Per mia natura, sono poco incline al lavoro con timbro e cartellino, ma riconosco che il tempo è un fattore determinante della produttività. E trovo odioso l'atteggiamento di chi va a "lavoro" col quotidiano o con la rivista sottobraccio, di chi non rispetta gli orari e non conosce puntualità. Trovo odiose le commissioni e gli incarichi da dare a ignavi eterni adolescenti incapaci di iniziativa e di qualsiasi creatività, inadatti a trovarsi in questo mondo così ricco che chiede solo che vi si agisca dentro. Gli auguri del rettoreIl fatto è che proprio incarichi e doveri all'università assumono le fattezze orrende del capriccio, legato alle inclinazioni personali di chi può permettersi di essere capriccioso e ai danni di chi vede il potere polarizzato nelle mani di chi è anche solo un gradino sopra.
Ogni potere in un mondo come quello universitario è la creazione di uno spazio monarchico, impermeabile a qualsiasi considerazione collegiale. L'università italiana, per un triste paradosso etimologico, è la prova che non esiste una comunità scientifica nel nostro paese, una comunità che abbia a cuore la crescita culturale e il miglioramento produttivo. Esistono logge, fazioni, partiti di interessi finanziari e politici, che nulla hanno e nulla possono avere a che fare con la crescita di un paese povero e disarmante, oltre che inerme di fronte al consumismo delle droghe di ogni tipo. All'interno di questi spazi, si stabiliscono alleanze, complotti e tutto ciò che può favorire, incrementare o consolidare i poteri personali. In ottica puramente pragmatica, perché, dunque, ci si dovrebbe alleare coi perdenti?
Che poi è un modo per dire che [->] non c'è riscatto. Non ci si allea coi perdenti se non si è stupidi e se si vuole vincere, ma soprattutto se si considera che i perdenti sono e rimarranno perdenti. Nel commercio dei favori, bisogna essere gretti se si vuol sopravvivere, il romanticismo dei valori lo si studi pure a scuola, purché lo si possa lasciare poi ben chiuso dentro i libri.Gli auguri del rettore I finanziamenti sempre più ridotti non possono che andare a chi ha manifestato interesse (di qualsiasi tipo e, beninteso, anche autentico, ci mancherebbe altro), accondiscendenza e simpatia nei confronti di chi può.
La logica per cui non ha senso distribuire soldi a pioggia all'università, indiscriminatamente, ha un suo senso, eccome, ma a questo punto, quale sarà il criterio di selezione? Il merito, certo. Dipende da quale, però. Non si tratta di qualunquismo personale: non tutti i politici e non tutti i professori sono uguali, in Italia non sono mai mancati [->] i geni, né - persino! - le persone per bene. Il problema è l'elezione a sistema di un'avaria che si deve riconoscere. No, non sono tutti uguali, alcuni sono più uguali degli altri. Il problema nasce quando siamo tutti a mantenere e a difendere questa acritica differenza.
E ora ditemi: devo avere paura a pubblicare questo post?

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