“Nulla è più pericoloso per il buon funzionamento di un teatro una direzione che non si senta toccata personalmente dall’aumento o dalla diminuzione degli incassi e sia pervasa dalla serafica certezza che il deficit prodottosi nel corso dell’anno sarà alla fine colmato da entrate di altra provenienza”.
Queste parole non sono state pronunciate a un convegno sul finanziamento alla cultura o da un “imprenditore” della cultura o da un ministro. Questa è una frase pronunciata quasi duecento anni fa da Johann Wilhelm Goethe.
Sorprendente, no? Già duecento anni fa un artista metteva sul tavolo la questione del finanziamento alla cultura e della necessità che essa non viva solo in virtù di un sostengo, diciamo, filantropico (oggi diremo “pubblico”), ma che si misuri anche con l’altro tipo di pubblico, quello fatto di spettatori che possono apprezzare o meno un’opera e determinarne dunque il successo e dunque il guadagno.
Quale pubblico?
La citazione è riportata nel libro “Kulturinfarkt” – scritto da Dieter Haselblach (professore di sociologia), Armin Klein (direttore artistico di un teatro di Francoforte), Pius Knüsel (redattore culturale per la televisione svizzera) e Stephan Opitz (responsabile del dipartimento affari culturali nel Land Schleswih-Holstein) – e pubblicato in Italia da Marsilio. Vi si legge nella sovraccoperta:
Gli autori innescano una sapiente quanto spietata e lucida polemica sulle politiche culturali, la cultura istituzionale, le sovvenzioni alla cultura… Vi si ritrovano in aperto conflitto tutte le idee, le visioni, i concetti, che nel corso della storia hanno armato la benefica mano dello stato come promotore della cultura, per scopi sempre diversi (…) troppi sono oggi i compiti affidati alla cultura che perde di vista la sua ragion d’essere e il confronto con il pubblico.
Ecco, lo ammetto. Il tema mi stuzzica assai, ma soprattutto mi piace il gioco con le parole. Da un lato infatti c’è il tema del supporto pubblico alla cultura e dall’altro l’importanza del pubblico inteso come “cliente” o fruitore della cultura.
Due parole identiche che tuttavia indicano due strade diverse, se non addirittura opposte.
Pubblico = denaro dello Stato
Pubblico = spettatore
Scriveva Nietsche nel 1876:
Due cose debbono concorrere affinché un evento abbia grandezza: il grande animo di coloro che lo portano a compimento e il grande animo di coloro che fanno esperienza.
Caspita, duecento anni fa davvero era già tutto chiaro, eppure si direbbe che oggi ce ne siamo dimenticati! Anche il tema dell’esperienza, così diffuso nella nostra epoca postmoderna (penso a Michel Maffesoli e alla sua idea di una socialità dell’in-gresso, per cui vale l’esperienza condivisa qui e ora e basta), è oggi centrale. Si parla, infatti, di experiencing marketing e gli eventi spesso sono costruiti per lasciare tracce dentro l’esperienza dello spettatore.
Oggi in Italia ci sono oltre 900 festival culturali. Quanti di questi potrebbero sopravvivere grazie all’esperienza di un pubblico (pagante) rinunciando in gran parte alla mano pubblica assistenziale?
Il tema non è nuovo per l’Italia. Ricordate l’articolo di Baricco su Repubblica cinque anni fa? La sua presa di posizione aveva scatenato un vero dibattito: Baricco suggeriva di spostare i fondi dei teatri alla televisione e alla scuola, unici luoghi in cui tutte le classi sociali in modo indistinto ci passano e dunque unico luogo in cui si può diffondere davvero la cultura. Soprattutto però aveva affrontato un tema spinoso, quello della cultura e del business:
Questo è un punto delicato, perché passa attraverso la distruzione di un tabù: la cultura come business. Uno ha in mente subito il cattivo che arriva e distrugge tutto. Ma, ad esempio, la cosa non ci fa paura nel mondo dei libri o dell’informazione: avete mai sentito la mancanza di una casa editrice o di un quotidiano statale, o regionale, o comunale? Per restare ai libri: vi sembrano banditi Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Adelphi, per non parlare dei piccoli e medi editori? Vi sembrano pirati i librai? È gente che fa cultura e fa business. Il mondo dei libri è quello che ci consegnano loro. Non sarà un paradiso, ma l’inferno è un’altra cosa. E allora perché il teatro no? Provate a immaginare che nella vostra città ci siano quattro cartelloni teatrali, fatti da Mondadori, De Agostini, Benetton e vostro cugino. È davvero così terrorizzante? Sentireste la lancinante mancanza di un Teatro Stabile finanziato dai vostri soldi?
Quel che bisognerebbe fare è creare i presupposti per una vera impresa privata nell’ambito della cultura. Crederci e, col denaro pubblico, dare una mano, senza moralismi fuori luogo. Se si hanno timori sulla qualità del prodotto finale o sull’accessibilità economica dei servizi, intervenire a supportare nel modo più spudorato. Lo dico in modo brutale: abituiamoci a dare i nostri soldi a qualcuno che li userà per produrre cultura e profitti.
Business e cultura: una blasfemia?
Che questo sia un tabù è cosa nota. Tanti anni fa, erano gli anni Ottanta, mio padre aveva organizzato una mostra innovativa per l’Alto Adige delle “gabbie etniche” perché aveva radunato pittori che rappresentano i tre diversi gruppi linguistici in Alto Adige (italiani, tedeschi e ladini). Ebbene, i finanziamenti allora erano privati, di sponsor, provenienti dal mondo del turismo. Alcuni però si erano lamentati, perché i soldi del turismo avrebbero macchiato la purezza dell’arte.
Certo i tempi erano diversi, ma in fondo l’idea che si possano usare strumenti e modi del business in ambito culturale fa rabbrividire molti ancora oggi. E allora si preferisce andare avanti con amministrazioni pubbliche che, per la loro mission, non sono in grado di sviluppare competenze, o con fondazioni i cui consiglieri sono spesso i soliti nomi già visti, estranei di fatto alla cultura, ma presenti su molteplici poltrone sparse nel paese. Sfido chiunque poi a portare un progetto nuovo, dentro questa rete di amici di amici. Eppure continuiamo tutti a chiedere meritocrazia. Perché la cultura dovrebbe restarne fuori?
Se considero il panorama italiano degli eventi culturali in effetti un po’ di disagio lo sento. Lo studio di Guerzoni sui festival culturali (ne ho parlato qui) apre a più di un dubbio:
- Finanziamenti poco chiari
- Debolezza manageriale
- Numero altissimo di festival, il cui ritorno reale in termini di “promozione della cultura” è difficile da valutare.
Di come invece, per fare un esempio straniero vadano le cose in Francia, ne ho parlato qui.
L’assistenzialismo mortifica le competenze
Ecco perché, dentro tutta questa discussione sui finanziamenti pubblici alla cultura, farei un passo indietro e mi chiederei: nel nostro paese ci sono competenze manageriali adatte a gestire gli eventi culturali? Abbiamo un “albo” di professionisti di management degli eventi in ambito cultuale? Esistono agenzie che non facciano solo uffici stampa istituzionali ma letteralmente vendano la cultura?
La mia provenienza dal mondo dello sport può scandalizzare qualcuno (“Come si permette questa qui di parlare di cultura che è cosa ben più alta dello sport”), ma a me poco importa. Nel mondo dello sport (é vero non sempre pulito – su questo sono d’accordo) agiscono agenzie che vendono lo sport, che legano una disciplina a un brand, che fanno incontrare il business allo sport. Nella cultura sembra invece che questo sia un compito relegato solo alle istituzioni. Gli eventi culturali in Italia sono in gran parte espressione di un amministrazione pubblica. E forse è anche da qui che si dovrebbe partire. E forse, per farlo potrebbe essere utile seguire i consigli degli autori di “Kulturinfarkt”: basterebbe avere il coraggio di liberarsi dai pregiudizi per cui la cultura deve avere una funzione educativa. O solo educativa.
Si dovrebbe cioè seguire le logiche del ROI, quello coniato Kewin Roberts, il creatore dell’idea di lovemark, dove ROI sta – prima ancora che per return on investment – per return on involvement. Ne avevo parlato tempo fa in riferimento allo sport. I festival culturali italiani sono certamente un’importante occasione di intrattenimento. Ed è da lì che si dovrebbe partire per costruire uno sciame di professionisti che sappiano affiancare la cultura al business. Dove il pubblico, inteso come fruitori, possa essere consideranto un “cliente”. Anche lo sponsor dovrebbe essere visto come un cliente che decide di legare i propri valori a quelli di un certo “prodotto” culturale (e non solo a quello di un amico seduto in un certo consiglio di amministrazione).
Un evento culturale dovrebbe, cioè, prima di tutto ascoltare il suo pubblico. Dovrebbe anche essere un volano per la crescita di conoscenze e competenze non solo nel merito (arte, pittura, filosofia) ma pure sul management. Le organizzazioni culturali dovrebbero essere trasparenti e virtuose, con bilanci sani e pianificazioni di crescita. Certo, per questo ci vogliono anche aziende che credano nella sponsorizzazione culturale, scuole che formino giovani manager della cultura, ma soprattutto ci vorrebbe il coraggio di non vedere nel business solo il male. Rileggere di tanto in tanto Florence Nouville ci aiuterebbe a ricordare che l’economia è una scienza al servizio della crescita, e dentro questa crescita anche la cultura dovrebbe trovare il suo posto.
Forse la chiave di lettura ultima ce la offre Peter Drucker quando parla di uno dei maggiori fraintendimenti che investono il ruolo dell’impresa. Scrive il padre del management: vi è la convinzione che “esista un’intrinseca contraddizione fra profitto e capacità di un’azienda di contribuire al bene di una comunità. In realtà, un’impresa può contribuire al bene di una comunità soltanto se realizza grossi profitti”. E lo scopo di un’impresa, continua Drucker, “deve essere nella comunità, perché l’azienda è un organo della comunità. Esiste una sola definizione valida di scopo d’impresa: creare un cliente”.
E allora se la difesa della cultura appare come uno degli scopi primari di una democrazia, in quanto stimolatrice di un pensiero critico, come è pensabile che questo bene per la comunità si possa diffondere senza che la cultura, e dunque gli eventi culturali, si aprano al management e agiscano come impresa? Il management, ci dice Drucker, è quella cosa per cui “le persone realizzano una performance comune attraverso obiettivi comuni, valori comuni, una giusta struttura e attraverso la formazione e lo sviluppo di cui hanno bisogno per realizzare risultati e reagire al cambiamento”.
Un evento culturale calato dall’alto con atteggiamento educativo è destinato a divenire deserto. È la cura del pubblico, in quanto cliente, che consentirà davvero una crescita di un’industria della cultura. E dovrebbe essere il pubblico a stimolare il successo, esattamente come diceva Goethe due secoli fa. E per curare il pubblico ci vogliono competenze e professionisti. Insomma, per far crescere la cultura ci si deve sporcare le mani con parole come cliente, management, profitto, competizione …
Biblioteca di sensible event management
Gli altri libri utili al management per gli eventi si trovano nella mia piccola biblioteca.
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