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Gli impresentabili

Creato il 21 aprile 2013 da Albertocapece

094746279-94ef6aa0-ab70-4564-9d4b-58ca4098ab3fAnna Lombroso per il Simplicissimus

Traditori. Impresentabili. Miserabile. Cialtroni. Golpe dei giudici. Golpe comunista. Oggi il Fatto pubblica un inventario delle accuse di golpismo da Schifani a Vendola, da Brunetta a Buttiglione, ecumeniche e bipartisan. L’unico soggetto però a reprimenda è Grillo, il professionista dell’invettiva e del vituperio, diventato motto di partito, che tira un sospiro di sollievo e incassa, ben contento, anche grazie ai solenni moniti del suo candidato, di sospendere una sollevazione di difficile gestione.

E dire che gli storici indicavano nella mitezza una virtù sociale tipicamente italiana, come il parmigiano e i capperi. E come, a loro dire, l’istinto, l’indole a perseguire l’uguaglianza, un caposaldo risorgimentale – basta pensare a La rivoluzione di Pisacane – poi motore dei primi scioperi, a cominciare dalla Boje, della lotta delle Leghe, dalle battaglie femminili e via via fino alla Resistenza dimenticata. E, se c’era, deve essere stata dimenticata anche la mitezza, tra repressioni di Bava Beccaris, persecuzione di oppositori, oli di ricino, leggi razziali seriali, rappresaglie di Graziani, il dedicatario di un omonimo recente mausoleo promosso anche quello da formazioni bipartisan e pacificatrici, e di fresche violazioni di diritti.

Ma per mitezza come componente collettiva della nostra autobiografia, gli storici intendevano di certo una virtù domestica, paesana, contadina. Come quell’indole all’autogoverno, quello dei comuni, dell’autocoscienza identitaria di Cattaneo, dell’Ordine Nuovo di Gramsci, del Partito d’Azione, quello di campanili diventati invece la colonna dell’infamia leghista, del razzismo, dei respingimenti, del rifiuto dell’altro da noi. Altro che italiani brava gente, come quell’istinto a una autonomia responsabile nel pari riconoscimento di diritti e doveri, quella mitezza, nelle sue declinazioni cattoliche, socialiste, comuniste, non belligeranti e pacifiste, capace di preconizzare un mondo migliore, perché, se appartiene a quella parte della società “che non esercita il potere, umiliati e offesi, sudditi che non saranno mai sovrani”, vi aspira, beh anche quella gentilezza modesta e creativa, limpida e innocente, ha subito una mutazione. Se non è diventata una interessata accondiscendenza, una tolleranza ispirata dalla desiderabile condivisione di licenze e modesti privilegi, si è convertita in appartato solipsismo, nella limitazione del proprio orizzonte all’interesse personale, risentito e spaventato da chi è esterno al proprio recinto.

La paura, il rancore, anche quello legittimo, l’eclissi della compassione, che ha poi la stessa radice di compagno, quando condividere pane, dolore o allegria, con gli altri sembra un lusso che non ci si può permettere, porta alla sordità.

E se invece si ha la fortuna di detenere un frammento di potere o di privilegio, per non ascoltare, per coprire le voci degli altri, si strepita nei salotti televisivi, in Parlamento, si grida perfino twittando. E se l’urlo vien su dal basso, se è quello della disperazione, della rabbia, allora bisogna zittirlo, perché è barbaro, è bestiale, è arcaico, ci fa fare brutta figura all’estero e penalizza gli investimenti.
Insomma ci sono presi anche le parole quelle nostre che servivano per dire la critica, per esprimere lo sdegno, per dare forma alla rabbia, umiliano il piacere di ragionare insieme, proibiranno le canzoni, metteranno in galera i poeti, perché si sa che parole, versi, note abituano alla libertà e la rendono irrinunciabile.


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