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Gli indios lo chiamavano don patagonia

Da Barbini

GLI INDIOS LO CHIAMAVANO DON PATAGONIAalberto maria de agostini
Il ragazzo con la tonaca e il basco nero è immerso nell’aria argentina dello stretto, solo sul ponte del traghetto, appoggiato al parapetto. La giornata è sempre più scura, fredda. C’è vento sull’acqua. Non ci sono altri rumori oltre a quello del vento e del barcone, il rumore di un vecchio motore a scoppio Ora Alberto non distingue quasi più i contorni delle montagne. Masse nere che incombono sulle acque. Si vedono affiorare dalla riva piccoli accampamenti con verticali colonne di fumo, che alle volte il mare gonfio nasconde. Come sarà la missione che mi sta aspettando? E come sarà questa terra ai confini del mondo? E i monti che scorgo da questo parapetto?Il giovane sacerdote salesiano si ripeteva queste parole ancora una volta, mentre il suo lungo viaggio dall’Italia arrivava alla fine navigando lentamente nello stretto di Magellano. Alberto è ora accovacciato a prua, nella parte esposta al vento della piccola nave. Fa freddo ma sente di essere come a casa, nelle sue Alpi, l’aria fredda gli gela le ossa. Gli altri passeggeri preferiscono stare riparati nella cabina, lui è solo contro il vento e guarda verso l’oceano respirando insieme, a pieni polmoni, l’aria marina e il vento che viene dal Pacifico. È solo, ma la solitudine difende la sua emozione. Forse non poteva immaginare che quella terra avrebbe cambiato il suo destino.L’acqua è mossa e pumblea. Di tanto in tanto arrivano agli occhi di Alberto i primi abitanti di quelle isole. Facce e corpi arcaici venuti dalla notte dei tempi, cosi confusi e sradicati che il giovane missionario avverte come prigionieri di una profonda tristezza.Stanno silenziosi, sulla riva, non salutano e guardano. Lo sguardo sembra fissare quell’enorme canoa che porta ancora uomini bianchi sulla loro terra. E poi giunge,da dietro il fumo dei villaggi, l’acre odore della carne macellata e lasciata andare a male, l’abbaiare dei cani. Non sa ancora il giovane Alberto del “tiro al bersaglio”.Ci sono un’infinità di rapporti che indicano che nel corso dei primi decenni del secolo scorso, le navi che attraversavano lo Stretto di Magellano o la costa orientale ospitavano viaggiatori che si dilettavano a sparare a tutto ciò che si muoveva negli accampamenti degli indios. Si ignora, ancora oggi il numero delle vittime di questo sport dei bianchi.Anche Darwin era passato da quelle parti.Siamo nell’anno 1910, esattamente un secolo fa.La navigazione è sempre più lenta, il motore della nave ha un respiro affannoso, incontra una piccola isola di sassi preistorici interamente ricoperta di leoni marini.I maschi pesano quattrocento o cinquecento chili vivono in queste acque dalla notte dei tempi ma Alberto li vede per la prima volta. Enormi e fieri con la criniera sul groppone ruggiscono come i loro fratelli nella savana. Stanno ammassati a gruppi circondati dai loro harem di venti o trenta femmine. Sopra di loro, nelle rocce più in alto migliaia di cormorani immobili come statue di marmo.GLI INDIOS LO CHIAMAVANO DON PATAGONIALembi di terra ghiacciata, emersa qua e là quasi per caso. Ora siamo in estare e Alberto pensa a come saranno queste terre in inverno con gli artigli del gelo antartico piantati su ogni forma di vita. E tutt’intorno, per sei mesi, buio , freddo e silenzio.Correva l’anno 1910.Un giovane prete della congregazione dei missionari salesiani sbarca nella Terra del Fuoco e scrive cosi la sua nuova vita. Una terra ignota, per lo più ancora da scoprire, percorsa dal vento e dal gelo, abitata da sparuti gruppi di indigeni e da una pessima comunità di avventurieri, finiti in culo al mondo per le ragioni più disparate.La Patagonia era ancora un parola che evocava un mistero. La nave sta appena attraccando e il giovane Alberto ormai sentiva di avercela fatta. Questione di ore e sarebbe stato davanti al proprio futuro. Il futuro che ti aspetta a ventisei anni.
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