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In un mondo di cinepanettoni, sarebbe al massimo un cinepandoro. In un mondo di film d'autore, sarebbe l'ultimo della classe, quello che le capacità ce le ha ma non si applica abbastanza.
Gli infedeli è il frutto del sudore della stempiatura di un solo uomo, il fenomeno d'oltralpe Jean Dujardin, neo-oscarizzato (e globizzato, impalmato, baftizzato) per la sua straordinaria interpretazione in The Artist, storia di un umile ma determinato ragazzo della sterminata provincia francese (leggi tutto ciò che sta intorno a Parigi), asceso dai reality show alle commedie strappa-applausi, passando per le sit-com stile Love Bugs, fino alla favola del film muto e in bianco e nero su cui nessuno volle scommettere che alla fine volò alla conquista di Hollywood, complice un re Mida travestito da produttore in grado di spalancargli le porte della Mecca del cinema (leggi Harvey Weinstein, il fondatore della Miramax, colui che tutto ciò che tocca diventa premio, colui che tutto può, anche portare in trionfo agli Academy Award Shakespeare in love sbaragliando la concorrenza di colossi come Salvate il soldato Ryan di Spielberg e La sottile linea rossa di Malick).
Accanto a Dujardin, qui in veste di interprete, regista e sceneggiatore, la meglio quasi-gioventù di Francia: Gilles Lellouche, Guillaume Canet e Sandrine Kiberlain nel cast, Michel Hazanavicius, tra gli altri, dietro la cinepresa, e il principe della satira televisiva Nicolas Bedos ad insaporire lo script. Un totale di sette registi per otto episodi e lo scopo manifesto di ritrovare la gioiosa insolenza della grande commedia all'italiana, in primis dei Mostri di Dino Risi, declinando in tutte le sue varianti il tema dell'infedeltà maschile.
Primo problema: la scrittura, o piuttosto la sua assenza. Gli sketch nostrani di un tempo, anche quelli più brevi, traboccavano di irresistibili freddure. Quelli degli Infedeli obbediscono alla legge del minimo sforzo-massimo incasso, con la colpevole complicità di un pubblico ormai assuefatto all'insostenibile oscenità dell'etere. Detto altrimenti: non si ride abbastanza. E anche laddove si ride, come nei tre brevissimi frammenti diretti da Alexandre Courtes, è in fondo un umorismo da barzelletta al bar, da consumarsi istantaneamente assieme al caffè: “allora, c'è questo tizio che viene colto in flagrante dalla moglie e...”.
Secondo problema: la scrittura. Il film non sa trovare una sua direzione, impegnato com'è a cercare di tenere un piede nella comicità goliardica e audace, e l'altro sul terreno, piuttosto scivoloso a dirla tutta, della commedia d'autore che vuol far riflettere attraverso il sorriso. Il risultato è un'accozzaglia di toni disomogenei, realistici, faceti, drammatici persino, senza un ritmo narrativo riconoscibile. Ci sono i seduttori professionisti immortalati da un'estetica ultrapop, quasi pubblicitaria. C'è l'adultero sfigato del grigissimo episodio firmato Hazanavicius (il migliore a mio parere) o il distinto signore che va a letto con la poco più che maggiorenne di turno.
In questa variegata carrellata di traditori, gli autori si pongono certamente delle domande, ad esempio perché gli uomini siano infedeli. E si danno delle pessime risposte, pregne di misoginia e moralismo. Le mogli cornute rivestono immancabilmente il ruolo ingrato di custodi di una presunta normalità coniugale, nella quale l'adulterio non è che il sintomo di una ninfomania compulsiva, spesso triste e annoiata, che trova sfogo di volta in volta sui corpi di pin-up a pagamento, ammiccanti lolite o prostitute un po' attempate. Una patologia dalla quale gli angeli del focolare sembrano pressoché immuni. E se le donne fanno la figura, alternativamente, di silenzioso oggetto sessuale e di grillo parlante rompicoglioni, è l'uomo ad avere la peggio. Immaturo, maschilista, malato, pronto a tutto pur di mettere a segno una notte di trasgressione, persino a provarci con la collega racchia (Isabelle Nanty). L'infedele qui è davvero un mostro. Troppi elementi importanti sono stati tralasciati: mai una volta che qualche personaggio provi un vago senso di colpa, mai una volta che si intraveda un pizzico di passione nell'atto del tradimento, al di là dell'insopprimibile istinto del maschio fornicatore.
Discorso a parte per l'episodio diretto da Emmanuelle Bercot, unica donna ammessa nella cricca di registi fedeli agli infedelissimi Dujardin-Lellouche. Forse eccessivamente galvanizzata dalla consapevolezza di essere la sola a rappresentare un punto di vista femminile, la Bercot si mostra ben più ambiziosa dei colleghi uomini, e ovviamente combina un bel pasticcio. Nel suo 'La domanda', una coppia di coniugi (Jean Dujardin e Alexandra Lamy) finisce per confessarsi i rispettivi tradimenti grazie al vecchio trucchetto del gioco della verità. Il riferimento è alla fortunata pièce di Broadway Chi ha paura di Virginia Woolf?, nonché a Liz Taylor e Richard Burton, i fedifraghi per antonomasia dello star system anni '60, che nell'omonima trasposizione cinematografica riuscivano ad infondere tutte le (reali) frustrazioni del loro (reale) rapporto, uno dei più tormentati mai assurti ai dis-onori della cronaca rosa targata Hollywood. Purtroppo, negli Infedeli la pistola della verità puntata dritta alla tempia di Dujardin finisce per esaurire la sua carica distruttiva sul più bello, quando anche l'irreprensibile mogliettina ha abbozzato, tra gli ululati bestiali del marito ferito nell'orgoglio, una mezza ammissione di infedeltà, consegnando allo spettatore la sconvolgente scoperta che sì, anche il gentil sesso mette le corna. È proprio allora che la lite si placa, i due tornano mesti al loro tran tran quotidiano e cala il sipario.
Volendo essere buoni, si tratta di un film codardo e furbetto. Emblematico il chiacchiericcio mediatico calamitato su una campagna pubblicitaria presunta provocatoria, con tanto di locandine allusive a fellatio e a chissà quali bizzarre pratiche sessuali, quando nel frattempo passava in sordina la notizia che, senza troppe remore, si era tagliata la scena in cui Dujardin assiste al crollo delle torri gemelle mentre è impegnato in una delle sue avventure extra-coniugali. Si temeva che la sequenza potesse irritare la sensibilità del pubblico statunitense che, di lì a poche settimane, avrebbe decretato la vittoria di The Artist agli Oscar. Alla faccia del film disinibito, la scure della censura ha il suono di un Dino Risi che si scusa per la sua mostruosità, e non basta la strepitosa verve dei protagonisti a salvare un progetto che fa acqua da tutte le parti.
Al Dujardin che vorrebbe essere il nuovo Vittorio Gassman di Francia farebbe bene ascoltare ciò che un monumento vivente come Robert De Niro un giorno disse a proposito del mestiere dell'attore: “the talent is in the choises”, il talento è nelle scelte. Speriamo che questi Infedeli non si trasformino nella prima cattiva scelta di un talento sprecato.
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