Ne Gli innamoramenti (traduzione di Glauco Felici, Einaudi, 2012) il personaggio che dice io è quello di María Dolz, impiegata in una casa editrice di Madrid, “Giovane Prudente”, riflessiva e dubbiosa – un personaggio femminile, questa volta, ma comunque un’emanazione diretta del suo autore, così come gli altri personaggi, che in questo libro di “frasi lunghe” dialogano e discernono, sono a conti fatti una lampante e scoperta amplificazione del pensiero del loro autore. Ogni mattina, a colazione nel medesimo caffè, María ha il piacere di osservare due sconosciuti, un uomo e una donna, e di rimanere abbagliata dalla loro felicità. Sono, con tutta evidenza, una coppia sposata e si concedono quel rito quotidiano, strappato ai personali impegni, dopo aver accompagnato i figli a scuola, prima di lasciarsi travolgere dalle loro routine e tornare a vedersi la sera. Per María, sono l’immagine della coppia perfetta. «Auguravo loro tutto il bene del mondo, come ai personaggi di un romanzo o di un film dei quali si prendono le parti fin dall’inizio».
Un giorno, però, dopo che per qualche tempo María non ha più avuto il piacere di incrociarli, scopre che Miguel Desvern (così si chiamava l’uomo della “coppia esemplare”) è stato brutalmente accoltellato da un balordo che vive in un’automobile, custode di un parcheggio; nel suo delirio il gorrilla riteneva Desvern responsabile della deriva morale delle sue figlie, entrate in un giro di prostituzione. María sente il bisogno di avvicinare la moglie di Miguel Desvern, Luisa, che si ricorda perfettamente di lei e della sua costante presenza nel caffè, ogni mattino in cui lei e Miguel erano soliti far colazione insieme. È in casa di Luisa che María incontra Javier Díaz-Varela, amico intimo della coppia, e se ne invaghisce. In seguito, i due avviano una relazione, ma la redattrice intuisce che Javier è da tempo innamorato della vedova. Si configura perciò il classico triangolo amoroso: lei che ama lui, non ricambiata; lui che ama una donna che non potrà mai avere, la donna del suo migliore amico.
Eppure le circostanze sono cambiate e Díaz-Varela spiega a una María sconcertata, ormai rassegnata al suo ruolo di innamorata esclusa, che è solo questione di tempo. Nel lento e inesorabile trascorrere dei mesi il ricordo di Miguel sfiorirà; un giorno Luisa non si ricorderà più il suo viso; un altro giorno ricorderà solo qualche tassello degli eventi condivisi con Miguel quand’era ancora in vita. Quando questo accadrà Díaz-Varela sarà nel posto giusto al momento giusto, si inoculerà in Luisa e si sostituirà al pallido fantasma di Miguel. «Quando muoiono in molti attorno a noi, come in una guerra, oppure uno soltanto ma molto amato, sentiamo in prima istanza la tentazione di andarcene con loro, o almeno di farci carico del loro peso, di non farli andare via da soli. La maggior parte delle persone, tuttavia, li lascia allontanare del tutto con il passare del tempo, quando si rende conto che è in gioco la propria sopravvivenza, che i morti sono una grande zavorra e impediscono qualsiasi crescita, e anche qualunque sollievo, se si vive dipendendo troppo da loro, troppo dal loro lato oscuro».
Gli innamoramentisi delinea come una sorta di noir metafisico, dove la riflessione sul rapporto che i vivi instaurano con i propri morti viene sviscerato a più riprese, senza peli sulla lingua, con raffinata sensibilità e da una prospettiva laica e disincantata, perturbante e impietosa nell’evidenziare quei filtri che siamo soliti utilizzare per non percepire o per evitare di riflettere su una verità che sentiamo come inaccettabile e che ci fa soffrire, un’evidenza che ha il potere di atterrirci, spiata dal buco della serratura; una realtà che si manifesta repentina e micidiale, dove tutte le certezze vengono ribaltate e presentate sotto una nuova lente. Niente è semplice; tutto è, anzi, complesso e sfaccettato. La morte di Miguel Desvern, apparentemente casuale e beffarda, inutile e insensata, si ammanta di ulteriori nuance e nuove possibilità.
L’ordito del romanzo si sviluppa come una suite, con variazioni multiple che convergono di nuovo, quasi ossessivamente, sul tema principale, di volta in volta più elaborato, arricchito di particolari e minuti dettagli, modulato dall’ipertrofia narrativa del suo autore, che tira in ballo Shakespeare, Dumas e Il colonnello Chabert di Balzac. «(…) con il passare del tempo, quello ch’è stato deve continuare a essere o deve continuare a essere stato, come succede sempre o quasi sempre, così è concepita la vita, di modo che ciò che è fatto non possa mai disfarsi né possa disaccadere l’accaduto; i morti devono restare al loro posto e niente deve modificarsi».
C’è, in questo romanzo, un’estrema dissoluzione delle cose, un messaggio urticante e disturbante ma estremamente chiaro e perspicuo nel suo intento conoscitivo. Non possiamo e non dobbiamo convincerci di possedere una verità, o un pugno di verità, fino in fondo, e aspettarci che tali verità permangano inalterate e inalterabili nel tempo. Cosa succede se di un singolo evento ci vengono di volta in volta proposte versioni sempre diverse e inafferrabili? Possiamo, nel tempo, impedirci di mutare le nostre iniziali passioni e sentimenti, le nostre costruzioni di pensiero? Congetture, ipotesi, speculazioni. Potrebbe essere l’amore una giustificazione per ogni nostro atto, dal più nobile al più raccapricciante? Sono interrogativi destinati a rimanere aperti, nodi che non si scioglieranno. Ben lo sa Marías che in tutta la sua opera ha seminato i germi di una narrativa che è continua mistificazione del mondo reale, ma che converge sempre efficacemente sul suo oggetto: l’esistenza palpitante, di cui sentiamo l’odore, che intravediamo o immaginiamo purché rimanga ancora dentro il nostro orizzonte, poco prima di scorgere «da lontano la polvere dei suoi piedi che fuggono».
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