Gli italiani si lamentano spesso del fatto di avere politici corrotti, specie quelli del parlamento nazionale. Il fatto stesso di prendere stipendi dieci volte superiori a quelli di un operaio medio è considerato sufficiente per screditare anche il più onesto di loro.
Tuttavia la corruzione non è un male endemico al solo nostro paese. La SugarCo nel 1987 pubblicò un poderoso lavoro di J. T. Noonar, Ungere le ruote, in cui l’autore la faceva risalire addirittura al 3000 a. C., come caratteristica saliente di tutte le civiltà antagonistiche.
Là dove esiste un potere politico gestito da una ristretta minoranza, lì c’è sempre corruzione. Quanto più l’economia su cui si basa questo potere è ricca, tanto più è forte la corruzione. Sono praticamente leggi di una natura perversa. E in Italia abbiamo avuto degli esempi davvero eclatanti: dalla Banca Romana, ai tempi di Crispi e Giolitti, allo stragismo rimasto impunito, alla P2, al caso Moro, a Mani pulite, al più recente Problema della commistione di affari tra Banca e politica.
Il fatto che abbiamo politici corrotti non deve indurre a pensare che il popolo italiano sia peggiore di altri popoli. Anzi, considerando la netta separazione che vige nel nostro paese tra politica e società, si potrebbe pensare che gli italiani, fin quando non s’interessano di politica, sono un popolo altamente morale e che eventualmente diventano immorali quando cercano di difendersi, a titolo individuale, dalle prepotenze dello Stato; in tal caso infatti, poiché comunque lo Stato chiede d’essere pagato e obbedito, il cittadino più furbo scarica sul più ingenuo il costo e i doveri di quanto lui stesso dovrebbe sostenere.
Le spiegazioni che generalmente si danno a questo increscioso fenomeno, che offre di noi un’immagine assai poco lusinghiera, ineriscono a fattori di tipo storico e non psico-antropologico.
Lo Stato centralista e autoritario è stato visto sin dall’inizio come una forma di tradimento nei confronti delle istanze democratiche che avevano portato all’unificazione nazionale. La società civile, nel suo complesso, pur essendo stata caratterizzata da momenti di forte contestazione (come durante il Biennio rosso degli anni Venti, la Resistenza e il Sessantotto, durato circa un decennio), si è come rassegnata a questo quotidiano sopruso della politica. I tentativi di decentrare i poteri dello Stato hanno fino ad oggi conseguito modestissimi risultati (regioni a statuto speciale, una più marcata regionalizzazione in talune materie di competenza statale).
Attualmente si sta vagliando l’idea di realizzare un federalismo fiscale, dopo aver varato quello demaniale. Si teme tuttavia che accanto all’idea di federalismo, la politica voglia trasformare la repubblica da parlamentare a presidenziale, col pretesto di voler bilanciare il peso del decentramento dei poteri, che, se troppo forte – si dice – rischierebbe di compromettere l’assetto nazionale. Inoltre si teme che se col federalismo non si rinuncia sul piano nazionale a molte strutture dell’assetto politico-istituzionale, il cittadino finirà col pagare due volte, per cui un qualunque federalismo calato dall’alto non farà che peggiorare la sua situazione finanziaria. D’altra parte è assurdo pensare che la politica voglia rinunciare spontaneamente ai propri privilegi.
L’Italia ha fino ad oggi avuto una politica altamente corrotta perché, essendo il nostro un paese che ha cominciato ad arricchirsi notevolmente solo a partire dal boom economico del secondo dopoguerra, la politica è sempre stata vista come una forma di arricchimento alternativa a quella tipicamente industriale-commerciale (industriali prestati per così dire alla politica sono sempre stati da noi molto pochi: questo è anche uno dei motivi per cui non è mai esistita una legge sul conflitto d’interesse).
Nel nostro paese i politici possono anche avere origini socialmente modeste: l’importante è che non mettano in discussione la linea del loro partito, il quale viene ad essere considerato come un padrino che permette di fare carriera. In cambio viene chiesto di far approvare in parlamento cose che possono anche non essere personalmente condivise. Da questo punto di vista, anche se a un cittadino può apparire contraddittorio, a un parlamentare risulta abbastanza normale passare da uno schieramento perdente a un altro vincente, oppure che vari partiti minori possano sciogliersi e fondersi in uno nuovo, o anche che un partito possa cambiare periodicamente denominazione, al fine di mostrare un aggiornamento di sostanza. Quello che conta non è l’idea ma il potere e per conservarlo l’opportunismo è la regola.
Non avendo mai avuto l’Italia unificata un impero coloniale equivalente a quello inglese o francese, ma avendo anzi dovuto creare al proprio interno una colonia (il Mezzogiorno) con cui far decollare lo sviluppo industriale del centro-nord, la politica ha dovuto svolgere sin dall’inizio una funzione di compromesso con cui rassicurare gli agrari del sud che i loro interessi non sarebbe stati minacciati, permettere una facile carriera politica o amministrativa o militare agli intellettuali meridionali, trasformare questi intellettuali, in agenti, diretti o indiretti, del capitalismo, contro gli interessi dei contadini del sud, che andavano velocemente trasformati in operai per le fabbriche del nord.
E così, mentre i politici settentrionali sono l’espressione esplicita degli interessi della borghesia industriale e commerciale, i politici meridionali sono invece l’espressione di una borghesia rurale poco competitiva o di un ceto impiegatizio che cerca di estorcere allo Stato padre e padrone quanto più possibile (dai diplomi e carriere facilitati all’assistenzialismo, agli investimenti a fondo perduto, che tante cattedrali nel deserto hanno edificato). A volte i politici possono anche essere l’espressione di una criminalità organizzata, cioè di un ceto storicamente di estrazione rurale che vuole arricchirsi sulle spalle della borghesia del sud e del nord.
La criminalità organizzata, fatta anche da politici corrotti che è molto diffusa in Italia, proprio perché la colonia da sfruttare è stata tutta interna alla nazione, rappresenta il modo più violento, sicuro e veloce di diventare borghesi senza averne le caratteristiche fondanti, che sono quelle tipiche dell’imprenditore industriale. Oggi la criminalità organizzata può essere considerata una delle componenti essenziali della corruzione della politica nazionale.
La politica italiana è altamente corrotta anche perché i politici hanno in genere una formazione cattolica, che per sua natura, essendo basata su valori quali obbedienza, gerarchia, centralismo…, è antidemocratica e amorale. Questi valori si possono riscontrare persino nei grandi partiti della sinistra, che non a caso venivano definiti (e in parte lo sono ancora oggi) delle “chiese laiche”.
Per secoli la cultura cattolica ha concepito il potere solo per il potere, pur mascherando questa esigenza con discorsi di tipo etico-religioso. La politica come servizio, gli ideali umani della politica, la politica come espressione del diritto universale spesso non sono che finzioni del più volgare cinismo.
La formazione cattolica è anche alla base di quella cultura idealistica che considera imparziale lo Stato rispetto agli interessi delle classi sociali contrapposte. Ora, è evidente che per conservare questa forma di illusione, i politici si sentono autorizzati a qualunque cosa, proprio perché essi sanno di far parte di un establishment indipendente da una naturale alternanza di governo. I politici parlamentari raramente, per motivi democratici, hanno rinunciato spontaneamente ai loro privilegi prima di aver raggiunto i massimi benefici possibili, che permettessero loro un’esistenza agiata anche al di fuori della politica. Gli inquisiti cercano addirittura di non uscire mai dalla politica. La politica o è una lucrosa professione o è un salvacondotto per la propria impunità. Chi rinuncia spontaneamente alla politica è perché già dispone di un’attività molto redditizia, salvo eccezioni naturalmente.
Un altro aspetto della formazione cattolica sta nella ideologizzazione dello scontro politico, nel senso che agli interessi nazionali spesso vengono opposti quelli particolari di una chiesa, di un territorio, di una lobby economica o finanziaria, di un partito politico, di una coalizione di potere. Anche se formalmente lo Stato viene presentato come equidistante, interclassista, nella sostanza invece viene usato come strumento fondamentale per coltivare interessi corporativi (di casta, di cricca). Uno Stato che alla resa dei conti è autoritario e centralista, facilmente sviluppa una società indifferente alla politica e tendenzialmente anarchica, disposta a rispettare le leggi solo formalmente. E’ dunque evidente che quanto più la democrazia viene vissuta passivamente, tanto più la politica e con essa la società si corrompono.
Fatta questa lunga premessa, si possono ora proporre alcune semplici “ricette” contro questo virus apparentemente ineliminabile dei politici corrotti, i quali poi, nell’ambito del capitalismo, sono solo un riflesso di quella economica.
Decentrare al massimo i luoghi decisionali, secondo questo criterio proporzionale: va riconosciuto tanto più potere quanto più le realtà territoriali, in cui esercitare la democrazia, sono piccole o circoscritte, delimitate geograficamente. Le istanze superiori servono per confrontarsi, non per prendere decisioni, a meno che i delegati non siano stati espressamente autorizzati a farlo da parte delle loro comunità di appartenenza.
Va riconosciuto un potere politico effettivo a quelle realtà territoriali in grado di dimostrare d’essere economicamente autosufficienti, cioè non dipendenti da forniture esterne, essenziali alla loro sopravvivenza. I mercati hanno senso solo per lo scambio delle reciproche eccedenze.
Qualunque carica politica andrebbe considerata temporanea, rivedibile o ricusabile in qualunque momento, soggetta a frequente controllo. Nessuno va considerato insostituibile, inamovibile, al di sopra di ogni critica.
Una democrazia deve essere strutturalmente diretta e autogestita e solo provvisoriamente può essere delegata.
Una democrazia è diretta e autogestita quando il suo soggetto decisionale è un organo collettivo eletto da una comunità precisa di riferimento.
In Italia esiste una questione morale ma in certi ambienti politici riguarda sempre la parte avversa e mai la propria, oppure la si nega. In ultima analisi mi chiedo ancora, come è possibile che una classe dirigente, possa così impunemente controlla settori della Pubblica Amministrazione senza nessun controllo, dove la legalità non è un optional che si può osservare quando serve o per il proprio scopo; la legalità, al contrario è dovuta in uno Stato di Diritto anche perché, come si evince dal rapporto Transparency International sulla percezione della corruzione e della Legalità nella pubblica amministrazione, l’Italia è scivolata al 72 posto, e dietro paesi come il Ruanda.
Io invece affermo che la questione morale non solo esiste ma è antica come le Sacre Scritture e moderna come la nostra Costituzione, gli rammento che è finita l’epoca dei partiti ideologici (dove faceva carriera chi aveva la tessera del Partito) e che si deve tornare alla cultura politica della Carta costituzionale. Certamente vengono da lì i valori e le regole di cui abbiamo bisogno per vincere non soltanto la corruzione ma anche la più estesa malattia politica che sta mettendo a dura prova l’Italia; questo Paese non si salverà, e la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se non nascerà in noi un nuovo senso del dovere.
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Gli italiani hanno politici altamente corrotti.
Creato il 02 febbraio 2013 da Mir Gorizia @Ettore_RibaudoPossono interessarti anche questi articoli :
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