Non riesco più a
fare quattro passi nelle strade della mia città. Mi viene subito voglia di
tornare a casa, di rifugiarmi nella mia oasi domestica. In realtà, faccio
fatica a stare in mezzo alla gente, ovunque mi trovi. Voglio precisare che non mi
sono iscritto al club dei misantropi. Più semplicemente, la gente mi mette a
disagio. Mi rattrista vedere tanti volti stanchi, tante anime avvilite perse in
pensieri di colore nerofumo. Chi mi legge avrà notato che le persone sono
diventate cupe, non sorridono e non salutano più, sembrano tormentate dal
monologo interiore, disturbate da chiunque si avvicini loro. La preoccupazione
è scavata sui visi, sugli omeri stanchi, sul passo incerto e frettoloso. In
sostanza, le persone sono alienate e depresse. Non tutte s’intende, ma
certamente quelle che la crisi globale ha messo in ginocchio. Quelle che
percepiscono una pensione da fame o non hanno lavoro o hanno paura di perderlo.
Quelle che non riescono a pagare il mutuo e si chiedono com’è possibile che i nuovi poveri aumentino al pari
delle tasse e in misura esponenziale aumentino anche i ricchi e i furbi. È come
se qualcuno o qualcosa avesse risucchiato la linfa vitale alle persone
cosiddette “normali”, a chi ha sempre fatto il suo dovere con dignità, a chi ha
seminato ma non raccoglie, a chi dispera ed è colpito dal male oscuro dei
nostri tempi: la sperequazione sociale. La rassegnazione, ahimè, la fa da
padrona. E come si legge nelle Illusioni
perdute di Honoré de Balzac, “la rassegnazione è un suicidio quotidiano”. A
proposito di suicidi, non è certo casuale che in Italia siano in forte aumento
dal 2008, come afferma il secondo Rapporto Eures (sono circa 3.000 all’anno).
Colpa della recessione, della perdita o mancanza di lavoro, della grande
depressione in cui siamo caduti e che è peggiore di quella del 1929. Allora, si
trattò di una depressione finanziario-economica, oggi ha anche enormi ripercussioni
istituzionali, culturali e morali.
Basta entrare in una libreria, in un ufficio
postale, in banca o in un centro commerciale per rendersi conto che siamo
circondati da individui così apatici, abbacchiati e assenti da suggerire che
sia tornata l’epoca delle “anime morte” di cui parla Gogol nel suo omonimo,
famoso racconto. Le anime morte erano i servi della gleba defunti dall’ultimo
censimento ma per i quali i proprietari continuavano a pagare il testatico. È
come dire che viviamo in mezzo a gente che è già morta ma non lo sa. Eppure, se
ci fate caso, queste stesse persone sono capaci di reazioni improvvise,
scomposte, violente. Sono, in potenza, acque chete pronte a rompere i
ponti. Un recentissimo sondaggio Demoskopea effettuato su un panel di mille
persone intervistate, indica che 9 italiani su 10 sono arrabbiati. Proprio
così, spenti e abulici ma irritabili, anime morte ma inviperite. Incrociare i
loro sguardi è come toccare i fili dell’alta tensione. “Non avvicinarti che
mordo!”, pare che dicano al semaforo, quando il tuo sguardo si posa su di loro
o la loro auto, oppure quando si mettono in fila ai botteghini della burocrazia.
Come il risorto Gesù sembrano mansueti ma ci lanciano un chiaro avvertimento
“Noli me tangere!”. E chi li tocca? Non è necessario toccarli per beccarsi una
valanga di epiteti o un semplice vaffa per motivi futili. Di questi tempi, è
meglio non relazionarsi perché può succedere di tutto. La rabbia cova nei cuori
disastrati e può esplodere per un nonnulla. Uomo affamato, uomo arrabbiato,
diceva Joyce. È normale che la gente sia affamata e perciò adirata. Ha una fame
inappagata di giustizia, serenità e amore che la rende quasi cattiva. In
effetti, le anime morte sono lontane parenti dei walking dead o zombies, i
morti viventi che vanno così di moda al cinema. Meglio non fidarsi.
L’altro giorno, camminando nella “vasca” pedonale di una prospera città del
Nord, ho come notato per la prima volta che la folla sciamava in silenzio,
disordinata ma allo stesso tempo compatta. Le formichine avevano tutte la
stessa postura, la medesima curvatura, come se portassero un gravoso peso
comune. Le preoccupazioni? Le delusioni? La paura del futuro? Naturalmente, ma
c’era qualcos’altro. Vale a dire la frustrazione e la rabbia, gemelle bastarde
della nostra società disumana. Ebbene, per un attimo, l’immagine dei passanti
mi ha fatto pensare all’esercito di terracotta. Immagino che tutti sappiano di
cosa parlo, ma per chi fosse all’oscuro voglio precisare che mi riferisco
all’armata di oltre 6.000 statue di guerrieri in terracotta vestiti con corazze
in pietra e dotati di armi che furono rinvenuti a partire dal 1974 nello scavo
archeologico di Xi’an, in Cina. Queste statue facevano la guardia alla tomba
del primo imperatore cinese, Qin Shi Huang, il costruttore della Grande
Muraglia, e sono un replica fedele dell’armata che unificò la Cina. Ciò che
stupisce, nei guerrieri di terracotta di Xi’an in grandezza naturale, non è
solo l’impressionante realismo ma il fatto che sono ognuno diverso dall’altro eppure
terribilmente simili, uniti da un tacito e comune sentire, da un’espressione
severa che concilia l’acquiescenza e il furore pronto ad esplodere. La gente
che sfila nelle strade o si trascina a fari spenti nelle corsie di un
supermercato non ha la disciplina dei fanti di terracotta ma custodisce
nell’animo una furia inespressa di cui dovrebbero tenere conto coloro che ci
governano. E maggiormente quelli che continuano imperterriti a prenderci per i
fondelli e ci vessano con sadica determinazione, dalla casta politica e
partitica a Equitalia, dai boss della finanza criminale agli squali di vario
genere che mietono vittime nell’acquario dalle acque divenute torbide in cui
noi, i pesciolini indifesi, nuotiamo disperatamente, senza ripari o speranza.
Ecco cosa manca negli sguardi delle anime morte che fissano il domani come
l’armata di Xi’an: la speranza.
Che tristezza! Non ci hanno tolto solo il sonno
e la fiducia, sono riusciti a rubarci il sorriso. Fateci caso: sorridere è
sempre più difficile. I miserabili che giocano con le nostre vite come se
fossimo biglie o tappi di bottiglia ci hanno tolto anche la voglia di reagire,
di cambiare l’inerzia della vita. Ma non è mai troppo tardi. Voglio credere che
le anime non siano morte ma solo sedate, in rianimazione. E forse l’armata di
terracotta, stanca di fare la guardia al nulla, aspetta che qualcuno compia un
incantesimo, gli fornisca l’energia vitale perché diventi un movimento tellurico. Sì,
voglio credere che la gente si ribellerà a chi sta trasformando il
giardino Italia in un deserto.
Potranno tagliare tutti i fiori ma non
fermeranno mai la primavera.
www.giuseppebresciani.com
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