Gli scrittori e lo zero

Creato il 25 ottobre 2010 da Lucas
Ieri sera, intervistato da Fazio, Sandro Veronesi - dopo aver presentato il suo ultimo romanzo XY - ha detto, riprendendo una famosa frase di Alberto Moravia, che gli scrittori valgono zero, che insomma non contano nulla, non hanno alcuna rilevanza "politica". Certo, è vero: in Italia abbiamo Berlusconi, in Russia hanno Putin... ma in America hanno Obama. Obama non è forse un figlio della narrativa americana contemporanea migliore (e non solo americana)? Boutade a parte, io penso che non sia completamente vero l'assunto di Moravia, ripreso da Veronesi.Non lo è soprattutto per una ragione: gli scrittori, quelli veri, quelli che più si legge e si ricorda e che maggiormente vengono editi, letti, tramandati, non hanno mai avuto la pretesa, attraverso le loro opere, di raddrizzare il legno storto dell'umanità: non hanno mai auspicato società perfette, non hanno mai teso trappole assolutistiche per la moltitudine. Alcuni hanno pure profetizzato, presagito scenari che poi, puntualmente, si sono verificati, alcuni anche peggiori da come erano descritti. Ma questo non ha mai voluto dire che la loro narrazione visionaria doveva diventare la gabbia nella quale rinchiudere l'inquietudine umana. Gli occhi dello scrittore svelano barlumi di senso ovunque, che il lettore, il singolo lettore, individualmente e mai collettivamente, può cogliere per assumere come un farmaco da prendere con le dovute precauzioni. Troppa luce a volte può essere accecante, occorre sempre filtrarla con le dita di una mano, come avviene con lo shock della luce artificiale in un brusco risveglio notturno.Soprattutto: una delle ragioni per cui le parole dello scrittore sembrano valere zero è perché esse sono arte cristallina: esse non possono sopportare di essere fossilizzate in slogan politici d'accatto. La descrizione di un tramonto, o di un biscotto inzuppato in una tazza di tè del pomeriggio, non potranno mai essere ritorte dentro la vuotaggine della retorica politica, non potranno mai essere espresse dentro un consiglio di amministrazione. Tali parole sono lì, alla portata di chiunque, di individui soli che tirano fuori il loro salvagente per non affogare nel mare dei luoghi comuni che li circondano. Leggete una frase, una sola di Nabokov, per esempio, e poi non sorprendetevi se davanti a voi vedrete brillare un sorriso di completa soddisfazione intellettuale.
«Un sentimento beato riempiva tutto il suo essere, una nebbia pulsante che di colpo si metteva a parlare con voce umana. Nulla al mondo poteva uguagliare quegli istanti. Inchìnati al dio immaginario, onora ciò che entra senza porte dalla periferia del sogno, il raro, il dono che la plebe manda a morte. Come alla patria giura fedeltà ai giochi d'illusione e fantasia. Soltanto i cani vegliano in città. La strada è buia. Un'auto porta via per sempre l'ultimo usuraio. È l'ora dei poveri, dei folli, dei poeti. La notte estiva è così sonora, e inventa sempre nuovi alfabeti... La foglia, guarda, accanto a quel lampione, ha un abito di verde taffetà: stasera ballo in maschera! Al portone si è incollata l'ombra di Baghdad. La luna strizza l'occhio a Pietroburgo. Oh, giura che - -».Vladimir Nabokov, Il dono, Adelphi, Milano 1991 (pag. 199 traduzione di Serena Vitale)

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