«Gli stati vegetativi non sono certo binari morti»

Creato il 01 dicembre 2012 da Uccronline

E’ ormai appurato senz’ombra di dubbio che i pazienti in stato di minima cosicenza (MCS), oltre ad essere vigili, possiedono consapevolezza e, in alcuni casi, capacità di realizzare forme di comportamento volontario. Ancor di più nello stato definito sindrome locked-innel quale sono preservate sia la vigilanza che la consapevolezza. Nello Stato vegetativo, invece, è preservata soltanto la vigilanza mentre la consapevolezza sembra essere assente.

Tuttavia dal Canada, in particolare dal Brain and Mind Institute dell’University of Western Ontario,  è arrivata la segnalazione di un paziente in stato vegetativo da dodici anni, Scott Rutley, e che è stato in grado di rispondere a domande specifiche sul suo stato di salute, spiegando di nono provare alcun dolore. «E’ la prima volta che un paziente incapace di parlare e gravemente cerebroleso è stato in grado di dare risposte clinicamente rilevanti ai sanitari», hanno detto i medici, i quali sono riusciti a comunicare con l’uomo grazie ad una particolare tecnica di “lettura” della mente di persone in stato vegetativo.

Il prof. Giovan Battista Guizzetti, esperto di stati neurovegetativi presso il Centro don Orione di Bergamo, dopo aver spiegato dettagliatamente tale tecnica di “lettura”, ha informato che «già nel 2007 si era ottenuto un risultato analogo», sempre grazie agli studi del neuroscienziato Adrian Owen, lo stesso che ha guidato il team sul paziente canadese.

Il neurologo italiano ha poi proseguito: «gli esami hanno dimostrato che la corteccia cerebrale dei soggetti in stato vegetativo non è affatto morta, dando risposte specifiche a stimoli esterni che eroghiamo». Ma purtroppo «a parte degli esempi di eccellenza, penso alla Casa dei risvegli di Bologna dove ci sono professionisti bravissimi che fanno un lavoro straordinario, la comunità scientifica in generale se ne frega totalmente del problema. Ci sono persone in stato vegetativo che hanno bisogno di cure particolarissime, a volte si devono aspettare anni per permettere che si possano fare queste cure. La medicina oggi in Italia di queste persone non ne vuole sapere».

E concludendo: «cominciamo a vedere recuperi a distanza di dieci anni: da noi una persona ha parlato dopo 12 anni quindi non è un binario morto. Con gli anni qualcosa si ottiene quasi sempre. Si tratta di recuperi piccolissimi ma significativi. Ecco perché non bisogna mai sospendere la cura».

In quest’altra intervista, davvero molto interessante, si è occupato del problema etico dell’eutanasia e del suicidio assistito, affermando: «penso che sia in atto una campagna mediatica che fa apparire le problematiche sollevate, quelle dell’eutanasia e delle direttive anticipate, come una urgenza che nasce dall’opinione pubblica.  Io  sono assolutamente certo che è vero il contrario: una ristretta elite di intellettuali ha deciso di ingaggiare questa battaglia  e per sostenerla la fanno apparire una sorta di richiesta popolare». Questi movimenti di pressione hanno l’interesse che «si affermi definitivamente  una cultura che fa dell’utilitarismo e dell’individualismo i suoi fondamenti».

E invece, «il timore vero della gente, e guardi che io ne incontro molte di persone durante la mia giornata, è quello di vivere l’abbandono terapeutico, di essere lasciati soli con un dolore non controllato, di non trovare più chi accolga la loro domanda di cura perché ormai si trovino al di là di quanto i protocolli prescrivono.  Non sto dicendo che non esista il problema, ma non dobbiamo cadere nella trappola tesa da alcuni ‘opinion leader’ e da alcuni circoli culturali che lo vogliono trasformare in una vera e propria emergenza nazionale».


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