Ricordo persino
l’odore che sembrava variare nell’aria della città quando gli ultimi giorni di
scuola si alleggerivano sui vestiti e negli zaini.
Ricordo di averli
voluti assaporare fino alla fine, perché tutti mi dicevano che, guardandomi
indietro, mi sarei pentita se non l’avessi fatto.
Erano ore un po’
così, in cui in classe rubavamo tra i banchi qualche altro frammento di vita da
condividere, consapevoli che difficilmente quei rapporti sarebbero durati col
tempo.
Un grande prof
cercava di incoraggiarci per gli esami, continuando a ripetere che quello
sarebbe stato solo l’inizio. E una frase che avrebbe dovuto rassicurare,
invece, spaventava ancor di più. Non sapevamo, però, quanto fosse vero!
Il colorito
bianco dei nostri visi si confondeva con quelle t-shirt colorate e vorrei
adesso poter tornare per un attimo, ma un attimo soltanto, ad allora e
ritrovare quelle sensazioni così in contrasto tra di loro che neppure fingersi
calmi e raccontarsi bugie serviva.
Ricordo la prima
prova. Ho scelto la traccia libera perché non volevo limiti.
“Comunicare le
emozioni”, s’intitolava.
La tecnologia
che ha cambiato le abitudini dell’uomo, che si nasconde dietro un display,
anziché aprirsi a quei brividi autentici che solo qualcuno in carne e ossa può
regalargli.
Sì, è vero. Ma ci
sono anche emozioni che la protezione di un monitor aiuta a estrarre da dentro
con meno fatica. E io, che avevo da poco aperto il mio blog, lo sapevo bene. Io
che, proprio in quei giorni, tra Schopenhauer e l’Antigone, Fedro e la Luna,
sul web stavo scrivendo le basi di quello che sarebbe stato poi “A un passo da
te”.
E anche quelle erano emozioni.
Luciano di
Samosata nella versione di greco è stato meno impossibile del previsto,
nonostante l’errore ministeriale che ormai quasi ogni anno sembra un déjà vu.
Della terza
prova, invece, pochi brandelli sono rimasti conservati nella mia mente: era
già proiettata al 7 luglio, il giorno degli orali.
E
tutti a chiedere “cosa vuoi fare dopo la maturità?”, come se fosse il
quesito più semplice a cui rispondere. E gli infiniti dubbi cercavo di
nasconderli dietro certezze che non avevo.
Ricordo la
domanda sul Somnium Scipionis, a cui, con convinzione, ho risposto, mentre il
presidente della commissione ha contraddetto il mio aver dato la paternità
dell’opera a Cicerone, perché secondo lui apparteneva a Leopardi. Ma io, che di
Leopardi ne ero innamorata, ho insistito per avere ragione. E lui con me.
Ho alzato gli
occhi cercando conferma dalla prof di latino che stava udendo quell’eresia e,
nell’incontrarli, ha abbassato il capo. E non scorderò mai quel momento di
estrema confusione, rabbia e solitudine.
Non so se ne fosse
convinto davvero o intendesse solo provocarmi. So che volevo alzarmi e scappare
via da lì, ma ho proseguito perché “quello sarebbe stato solo l’inizio”.
Ho motivato la
mia certezza e ho chiesto di poter proseguire con le altre materie.
Dopo aver
terminato, in fretta, ho abbandonato quell’aula per timore che la diga potesse
non trattenere più la rabbia.
Son passati anni
da allora e certe sensazioni mi sembra di sentirle scorrere sulla pelle ancora
oggi. Il sole s’intrufola dai vetri delle finestre e pizzica, quasi come
allora.
Gli esami non sono finiti.
Ed è vero, quello è stato solo l’inizio!