Gli ultimi pensieri del capitano del Titanic

Da Lundici @lundici_it

Dannatamente fredda. Quella notte me la ricordo come la più fredda che il mio vecchio corpo avesse mai provato e anche adesso, che mi sono ridotto a una carcassa in fondo al mare, posso avvertire quella sensazione maledetta, come di un lungo ago che ti penetrava il cervello e ti risucchiava ogni pensiero. Che ti attanagliava i polmoni e lacerava lo stomaco, e non lasciava tregua alle ossa, soprattutto se stanche e rassegnate come lo erano le mie allora. Doveva essere la mia ultima traversata, il coronamento di una maestosa carriera e di una vita ammirevole.

Ma quale vita poi! Quella di uomo noioso, passata con l’unica compagnia della propria ambizione. Dicono che si muore così come si è vissuto, e allora la mia vita deve essere stata orribile davvero se la sua fine ne è stato lo specchio. Adesso che sto quaggiù posso confessarlo senza vergogna, non provo pudore verso le alghe né tantomeno verso le viscide scaglie luccicanti che scivolano dentro quel che rimane del mio scheletro.

Di tutte quelle persone, di quello sciame bestemmiante che urlava alla luna a me non interessava niente, né mi interessava degli altri, quelli che in quel momento sorseggiavano un tè a qualche miglio di distanza e che il giorno dopo avrebbero commentato amaramente le mie mancanze e analizzato banalmente i miei errori, nascosti dietro al fumo di un nuovo tè bollente.

Da quel che mi ricordo, una volta raggiunta la certezza che di lì a poco la lingua molle e viva e calda che in quel momento potevo far scorrere lungo i denti bianchi sarebbe sprofondata nella mia gola, la mente cominciò a dissociarsi prima da quello che mi circondava e poi da me stesso. Anche la più straziante delle scene, il più piagnucoloso dei bambini in braccio alla più patetica delle madri o il più fedele dei cani in cerca del più vecchio dei padroni, quelle cose, insomma, che potrebbero ridurre a una femminuccia lacrimosa anche un turco del Fezzan, non mi avrebbero fatto tremare un baffo.

Mi aggiravo come un bimbo incosciente che si è perso e invece di essere spaventato continua ad andare avanti senza riflettere su quello che accadrà. I miei ufficiali, ai quali la giovane età manteneva il sangue caldo e la mente sveglia, mi guardavano con occhi terrorizzati e attivi, aspettando da me i soliti ordini chiari che avrebbero risolto la situazione. Del resto si accorsero presto che i miei, di occhi, erano appannati e distanti e smisero di chiedermi alcunché. Io li guardavo affaccendarsi dietro alle scialuppe, proteggere uomini, comportarsi in modo spregevole con qualcuno. Picchiare donne, accarezzare bambini, condannare povere anime e salvarne altre. E ogni tanto me la ridacchiavo a vederli tutti così presi dalla serietà delle loro azioni e intenti a non perdere neanche a questo gioco. Loro ancora non l’avevano capito che se non era la gelida massa nera ad inghiottirli, allora sarebbe stata la solitudine dentro ad un letto impregnato di piscio, o la mano ruvida di un ubriaco stretta attorno a un vetro rotto, o quella vellutata di una donna tradita aggrappata all’impugnatura d’avorio di una Colt, o la prostata. Io ero l’unico che sapeva e l’unico che rimase immobile, a veder passare proprio al di sotto del naso lo sfacelo della civiltà e il rapido ritorno nel regno animale.

Quel che è successo dopo davvero è difficile da descrivere, le immagini si sovrapposero agli odori, i suoni erano un tutt’uno col tatto e il presente e il passato non erano più separati da quella sciocca membrana illusoria. Avevo sentito dire che, in punto di morte, la vita torna a trovarci, e in un certo senso è stato così anche per me che, nel mio sonno mentale, vedevo i seni tiepidi di mia madre in quelli di una donna con uno scialle a fiori e i baffi severi di mio padre in quelli tremanti di un borghese non ancora pronto ad affondare assieme alle sue proprietà nello Yorkshire e ai suoi possedimenti a Nuova Amsterdam. Senza dubbio quelle caviglie che correvano impazzite dentro a una gonna rossa erano quelle di una giovane di cui ero stato follemente innamorato, a cui avevo mandato fiori, lettere farcite di smancerie e gioiellini di pessimo gusto . Quella giovane di cui non ricordavo il nome che si era sposata con un grasso ufficiale dall’alito odoroso di tabacco e per colpa della quale io mi ero trascinato come pazzo nella grande casa di famiglia, abbandonato dal gusto per il cibo, per la compagnia, per il sonno. Quella stessa giovane di cui non ricordo il nome per colpa della quale mi ero consacrato all’oceano e mi ero ridotto a un vecchio, solo, stimatissimo capitano.

Come dicevo, la memoria dei miei ultimi minuti non è qualcosa di semplice da raccontare. Più cresceva l’intensità delle grida attorno a me e meno io le sentivo, e meno a me importava qualcosa della sorgente di quelle grida o del loro contenuto.  Poi la nave cominciò a inclinarsi e lo sciame impazzito e cieco cominciò a correre. Io rimasi seduto, mi lasciai scivolare. Per tutta la vita avevo avuto paura di morire annegato, da bambino ero terrorizzato anche solo all’idea di mettere i piedi nel mare sporgendomi dal pontile come facevano gli altri ragazzi. Buffo per uno che sopra il mare ha passato tutta la sua vita. Ma forse si potrebbe anche dire che in realtà era stato quello il motivo per cui avevo scelto di diventare chi ero diventato. Accettare la sfida che l’acqua mi lanciava, dominarla e sottomettere la mia paura. Del resto ora non ha più importanza.

L’ultima cosa che vidi, ne sono quasi certo, fu un riflesso spezzato e luminoso. In quella distesa di velluto nero e angoscioso splendeva una perla superba, bianchissima. La luna vanitosa, indifferente alle nostre tragedie sciocche, mi strappò un’ultima risata.

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