Ogni volta che qualcuno lo augura, mi sento catapultato nel deserto, in un futuro post-apocalittico, inseguito da mercanti di schiavi e mangiatori di uomini.
Una corsa, un inseguimento al limite della sopravvivenza; con le mani sporche di olio lubrificante e la sabbia che ti gratta via la pelle, come una maschera di cartavetro spalmata sulla faccia.
Fuoco che divampa da pozzi di petrolio in fiamme e rapaci di lamiera in picchiata sulla preda, come in un album dei Judas Priest.
Significa che Dio ti porti successo, perché nell'inglese arcaico speed aveva sia l'accezione di fortuna, sia di velocità, e si rivolgeva in particolare a chi stava per intraprendere un lungo viaggio o un'impresa ardita.
In queste mie orecchie, però, assordate dal rombo del tuono, suona solo come una tiratissima traccia metal, un inno sferzante di benzina e asfalto.
Godspeed or no speed.
Premi quell'acceleratore e mangia la mia polvere.