“No More Games. No More Bombs. No More Walking. No More Fun. No More Swimming. 67. That is 17 years past 50. 17 more than I needed or wanted. Boring. I am always bitchy. No Fun – for anybody. 67. You are getting Greedy. Act your old age. Relax – This won’t hurt.”
Questo è quanto ha scritto Hunter S. Thompson prima di sparire a tutta velocità dalla terra e lasciare a quanti sono rimasti a guardarlo dal basso un’eredità e un mito difficili da gestire e comprendere.
Dopo l’epopea cinematografica e il rosario di pamphlet e scritti, nel 2011, Will Bingley e l’illustratore Anthony Hope-Smith danno vita alla prima graphic novel biografica su Hunter S. Thompson, radicale e inconsapevole apripista di quel gonzo journalism, ramo estremo del New Journalism che ha poi visto tra i suoi cultori anche Truman Capote e Tom Wolfe.
Le prime immagini sembrano confermare la forza scenica del mito. Hunter S. Thompson, il fuorilegge, l’alcolista, il giornalista scapestrato, il maledetto. Un’immagine di successo che ha trovato perfetto compimento nell’interpretazione di Johnny Depp in “Fear and Loathing in Las Vegas” e nell’ultimo “The Rum Diary”.
Le prime recensioni dai lettori d’oltreoceano, tuttavia, stroncano il libro: poca aderenza alla realtà, estrema caratterizzazione del personaggio, un elogio del mito più che della persona. La storia sembra appiattita tra aneddoti, curiosità e un inevitabile abuso di alcool e droga, con il rischio di fare del gonzo journalism una sorta di scrittura automatica che sgorga dal pugno dopo tre birre.
Non è improbabile che gli autori siano stati vittime di un certo timore reverenziale nei confronti di un mito. Così come Thompson, nel suo tentativo di sgretolare l’oggettività giornalistica attraverso un uso altro del linguaggio, era terribilmente a disagio con alcune specifiche parole, “the big ones”, come Felicità, Amore, da evitare o, al limite, manipolare con cautela.
La volontà degli autori era quella di liberarsi dai limiti di uno stereotipo che ha colonizzato la figura di Thompson, ma spesso la storia pare inciampare in facili cliché, rivelandosi una contestualizzazione storica di un mito.
Alan Rinzler, tra i migliori editor e strettissimo collaboratore del gonzo journalist, non manca di ricordare nella prefazione come la forza espressiva della scrittura di Thompson sia stata dimenticata a favore di una mitologia quasi adolescenziale. Il suo intervento è il vero squarcio dello stereotipo e mette a nudo Thomspon, descrivendone i blocchi dello scrittore, il carattere spigoloso e scostante, la difficoltà produttiva. Un eroe del giornalismo analizzato e decostruito anche nei suoi squallori e nelle sue infime bassezze quotidiane.
Tutti conoscono the big Hunter. Ma quanti l’hanno davvero letto? Da “Hell’s Angels”, studio etnografico sulle orde di centauri che attraversavano l’America intrisi di alcool e anarchia, a “Generation of Swine”, racconto ossessivo della degradazione del potere negli anni Ottanta, da “Fear and Loathing: On the Campaign Trail 72″, cronaca caustica della campagna elettorale statunitense del ’72, all’ultimo “Kingdom of Fear”, resoconto delle vicende politiche del secolo scorso, per andare oltre lo stereotipo del Dottor Gonzo, non resta che aprire uno dei suoi libri e perdersi nella sua scrittura altalenante, vertiginosa, visionaria e, tuttavia, inevitabilmente attaccata alla realtà.
Nonostante ciò, il libro contiene numerose citazioni dalle sue opere e può essere un ottimo punto di partenza per addentrarsi nell’universo del gonzo journalist per eccellenza e, perché no, lasciarsene affascinare. Anche grazie al tratto di Hope-Smith, che si discosta per scelta dall’espressionismo di Ralph Steadman, per un disegno realista e più aderente al genere biografico, basato su un meticoloso lavoro di studio a partire da immagini, foto e documentari.
“Some may never live, but the crazy never die.” -H. S. Thompson-
Qui, il booktrailer della graphic novel pubblicata da SelfMadeHero.