Goodbye, Dragon Inn

Creato il 03 settembre 2010 da Eraserhead
Fuori diluvia (è un film di Tsai), e dentro al piccolo cinema che sta per chiudere i battenti alcune persone assistono alla visione di Dragon Inn (1967), chambara-movie diretto da King Hu, autore anche de Le implacabili lame di Rondine d’Oro (1966). Nel frattempo la cassiera zoppa si aggira nel labirintico retro del cinema cercando il solito Lee Kang-sheng nelle vesti di proiezionista solitario (d’altronde, è un film di Tsai).
È un film di Tsai, vero, ma ad una prima visione potrebbe essere annoverata nel catalogo delle opere minori per il set imprigionato dentro ad una sala cinematografica, per i temi toccati all’apparenza meno universali del solito, per la durata di 80 minuti scarsi, e per l’andatura dilatata all’inverosimile, che già il regista nato a Kuching ci aveva abituato ad opere al rallentatore, quindi potete immaginarvi che cosa sia questa pellicola (no, probabilmente non riuscirete ad immaginarvelo).
Tutto ciò ad una lettura distratta, lettura ampiamente comprensibile vista l’attenzione certosina che il film richiede; ad un’analisi più mirata scevra dalla noia offuscatrice, si comprende invece di quanto Goodbye, Dragon Inn sia visceralmente tsaiano: in tutti i non-movimenti della camera, nel silenzio violentato da rumori lontani, e soprattutto nella trasposizione malinconica delle ombre umane rappresentate. Nulla ci viene detto su di loro, perché probabilmente non c’è nulla da sapere. A parte che sono soli e tentano di non esserlo restando vicini più del dovuto nei cessi a muro.
Ciò che al massimo ci viene suggerito è il tarlo che siano dei fantasmi, e i lucciconi di uno di essi di fronte alle scene conclusive del vecchio film ne confuterebbero l’ipotesi. Ma non un fantasma qualsiasi, bensì il fantasma di un attore, un fantasma del cinema.
È qui che il film di Tsai si spiega su di sé. Il regista non è nuovo all’idea di un cinema pensante, già con Il fiume (1997) aveva introdotto l’elemento auto-referente nell’opera, poi con Che ora è laggiù? (2001) aveva utilizzato “il film nel film” come strumento in grado di ridurre le distanze umane. Con Bu san la metariflessione si espande oltremodo, e immediatamente si pone un interrogativo: potrà mai il pensiero di Ming-liang aprire crepe di speranza sul mondo di celluloide alla luce di una filmografia pessimistica come poche altre? Neanche da domandarselo: ovviamente no. Il progressivo svuotamento della sala è una dubbiosa metafora sul futuro della settima arte. Quando l’ultimo spettatore va via, l’inquadratura resta inchiodata sulla platea deserta, file e file di seggiolini vuoti che desolatamente si susseguono. È un’istantanea glaciale che arriva dopo la fine della pellicola ma che ha la stessa efficacia, se non maggiore, del pianto catartico di Vive l’amour (1994).
Poi la saracinesca si abbassa per sempre. Resta una pioggia biblica (ma è un film di Tsai!), e una nostalgica canzone degli anni ’60 che parla di sole e fiori. Cose lontanissime dalla Taipei dell’autore.
Estremo, nella sua forma veramente estremo, nel suo senso, invece, profondissimo (tanto ormai lo sapete chi è il regista).

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