Il processo che contrappone William e Solo risulta un po’ troppo scolastico perché giocato su delle opposizioni parecchio evidenti: non si nota soltanto il contrasto del colore della pelle ma anche il carattere agli antipodi, e pure sulla questione del figlio c’è palese disarmonia: uno probabilmente perduto per sempre, l’altro in imminente arrivo. Certo, aldilà delle divergenze questi due uomini convergono nelle difficoltà esistenziali che li attanagliano e nonostante William sia il più abbottonato, dalla sua malinconia traspare un male di vivere che Solo carpisce al volo. L’epicentro della storia è esattamente questa empatia che si crea tra i due, con il tassista che dà prova di un grande spirito altruistico ospitando il suo “cliente” in casa e offrendosi più volte come autista fino alla fatidica data del 20 ottobre. Ma il problema è che questo affetto pressoché immediato di Solo nei confronti di William non ha dei presupposti convincenti per venir posto in essere. Da quello che ci è dato vedere è davvero difficile accettare che un perfetto sconosciuto si prenda a cuore le sorti di un uomo aspirante suicida (che tra l’altro non dirà mai “vado ad uccidermi”) con cui non ha niente a che fare. Se l’intento di Bahrani era quello di mostrare la fratellanza fra due uomini così diversi o l’atteggiamento caritatevole di un quasi reietto, l’idea è sicuramente lodevole, soprattutto in un momento storico pieno di cinismo/egoismo, il fatto è che però mancano gli ingredienti filmici per legittimare questo strano rapporto, e tenuto conto che la vicinanza Solo-William è la spina dorsale dell’intera opera, la ferita si rivela piuttosto ampia e difficilmente medicabile. A latere vanno aggiunte due piccole forzature che il regista di Plastic Bag (2009) utilizza per innervare la storia: la prima, più lieve, è il ritrovamento della foto del figlio nella giacca dell’anziano, la seconda, decisamente più romanzata, è la lettura del diario fino a quel momento mai apparso in scena.
Ad un’analisi razionale il film si presta dunque a più di una obiezione, ma se l’impianto generale manifesta delle falle preoccupanti, è pur vero che il finale ha dei meriti che vanno attributi alla scelta della location, uno strapiombo schiaffeggiato dal vento, agli attori, soprattutto Souleymane Sy Savane con gli occhi iniettati di dolore, e a Bahrani stesso che in una manciata di minuti intensifica il dramma costruendogli attorno una cappa di tensione tutta giocata sull’immagine (Solo sul ciglio del dirupo) e sul senso (è l’unico modo per volare?), che sfocia nell’ultimo campo lungo in cui la vita, in qualche modo, andrà avanti.