Aspettando l’uscita di Neve
Esce da noi l’11 dicembre l’ultimo film di Stefano Incerti, Neve, che è in questi giorni a New York per l’Italian Film Festival tra i sette selezionati, mentre un altro festival italiano del cinema, quello di San Paolo, vede il suo Complici del silenzio (2008) tra i film in concorso.
È un regista coraggioso, Stefano Incerti, che non esita a toccare temi come la mafia (L’uomo di vetro), la dittatura (Complici del silenzio), la drammaticità del quotidiano (nell’esordio con il Verificatore, 1995, fino ad oggi). E la verità, sempre, unita all’osservazione psicologica dei suoi personaggi. Tra tutti, quello di Gorbaciof (2010) è un ritratto che rimane a lungo nella mente. Lo riproponiamo, nell’attesa di vedere il suo nuovo film, “un thriller imbiancato”, dice lui, in cui “la neve è la protagonista assoluta”.
Gorbaciof, dopo una prima visione, vien voglia di rivederlo, per calcolare dopo quanti minuti di silenzio finalmente si sente la voce di Toni Servillo. Silenzio non proprio, anzi rumori di oggetti che si posano violentemente sul tavolo, porte aperte e chiuse con giri di chiave assordanti, passi che risuonano fino a farci trasalire.
Toni Servillo tace, ma parlano l’espressività del suo volto, l’incisività dei suoi gesti. Un personaggio sgradevole, soprattutto nell’andatura impettita, volgarmente sicura, assecondata da una giacchetta aderente a dir poco improponibile, per non parlare della pettinatura. Sgradevole più che mai quando, in mutande, appoggiato alla sua squallida cucina, aggredisce un panino stantio, nell’appartamento dove ogni particolare è costruito meticolosamente sulla mancanza di gusto. Riuscita esaltazione del kitsch, eppure credibile: lo spazio, l’ abbigliamento, quel suo andare spavaldo per le vie di Napoli vicine alla stazione centrale.
Servillo racconta che, prima delle riprese, è andato davvero per il quartiere di Vasto, seguito dal regista Stefano Incerti, per verificare l’attendibilità del personaggio e nessuno lo ha degnato di uno sguardo; il che significa che persone così nella quotidiano partenopeo passano del tutto inosservate.
Non ci guadagna in simpatia quando poi comincia a parlare: lo stretto indispensabile per le giocate a poker, con compagni discutibili, nel retrobottega di un ristorante cinese, dal quale sembra quasi poter avvertire gli odori scadenti del cibo. E non ha bisogno di parole al lavoro; fa il cassiere a Poggioreale e maneggiare denaro gli permette di sottrarne tutti i giorni, per poi restituirlo, quando va bene, la mattina successiva.
Lo sguardo di Marino Pacileo, detto Gorbaciof, per la voglia che porta sulla fronte (da pronunciare con la cadenza napoletana, quindi Gorbaciòf)) è sempre rivolto davanti a sé e quasi mai sugli altri; in un mondo, il suo, di estrema solitudine e quasi totale anaffettività. Senza famiglia, senza amici, senza relazioni intime, impersona il disturbo di personalità schizoide, di chi non partecipa alla vita, non ha parole per le emozioni, né calore relazionale.
Ci vuole talento per coinvolgere il pubblico nella storia di un simile personaggio! Per fargli sentire, non proprio empatia, ma sincera partecipazione alla sua salvezza, quando il destino, inevitabilmente, gli si rivolta contro. Perché sarà un eroe ridicolo e la sua la tragedia di un eroe ridicolo, come afferma Paolo D’Agostini, ma “chi l’ha detto che il ridicolo non possa assurgere a grande statura drammatica?”.
D’altra parte, il demone del gioco di cui Marino Pacileo è vittima, è stato al centro di tanta letteratura; basti pensare al Giocatore di Dostoevskij e alla lettura che ne ha dato Freud come sintomo di una grave nevrosi isterica; negli ultimi decenni è stato riconosciuto come disturbo psichiatrico, prima, come malattia sociale, poi. Nella graduatoria delle dipendenze, segue alcool e psicofarmaci ed è ormai considerato un problema che coinvolge particolarmente individui e famiglie ai livelli più svantaggiati.
Nel 1980 fu diagnosticato con la terza edizione del DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), che introdusse il concetto di gambling, tra quei “Disturbi del Controllo degli Impulsi non classificati altrove”. Da allora il fenomeno è stato studiato con molta attenzione; e l’Italia non fa una bella figura nell’ assenza di efficaci campagne preventive, anzi nell’incentivare un fatturato (per il gioco quantificabile, quello clandestino è a parte) che corrisponde al 5% del PIL nazionale; denaro che viene sperperato e non incide, oltre tutto, sull’economia.
Anche Gorbaciof muove il denaro senza dargli valore; anche lui è prigioniero di un ingranaggio assurdo più grande di lui; dipendente da una droga endogena che forse non procura più eccitamento, ma la coazione a ripetere di un meccanismo autodistruttivo. La psicologia del giocatore d’azzardo è resa molto bene da Servillo, se è vero che una delle caratteristiche della personalità dipendente è l’incapacità di riconoscere emozioni, di esprimerle: ciò che in termini specifici prende il nome di alessitimia.
Ma la rigidità emotiva del personaggio viene smentita piacevolmente: le rughe si distendono, alla maschera grottesca dell’inizio (che bravura nella recitazione!) si sostituisce un volto umano, dall’espressione persino un po’ bambina. Dobbiamo dire che è merito dell’amore? Quello che Marino prova per Lila, la dolcissima figlia del cinese proprietario della bisca: tenerezza, affetto, desiderio paterno di protezione, caparbietà nel difendere la ragazza dai pericoli.
E così, in un misto di cinese e napoletano, la comunicazione tra i due passa attraverso piccoli gesti, sorrisi, sguardi e giochi innocenti. Dai luoghi sordidi e notturni del quartiere, gli spazi si fanno più aperti e luminosi: lo zoo per esempio, in cui Lila dice la sua frase più completa: “In mancanza di tigri, le scimmie si elevano a tali, ma rimangono scimmie”.
Una tigre il nostro strampalato Gorbaciof? Beh, in una locandina del film c’è proprio scritto così: “Una tigre fra le scimmie”. Così lo vede Lila, come colui che solo può e vuole salvarla e anche noi abbiamo completamente dimenticato il fastidio di Servillo in mutande dell’inizio e vorremmo che Lila e Marino riuscissero a partire verso un destino migliore. La narrazione si conclude in una maniera del tutto inaspettata, ma va bene così. Non potrebbe esserci un lieto fine, né coerente, in un film che volutamente mescola generi, citazioni e rimandi.
Un bel film? “Ne esci con la sensazione di aver visto Cinema, quella cosa che racconta storie, crea personaggi vivi, comunica emozioni forti” (ancora da Paolo D’Agostini).
Margherita Fratantonio