Gorizia, la storia e l’Italia che non abbiamo avuto

Creato il 28 maggio 2013 da Casarrubea

Gorizia, piazza della Vittoria, fontana di Nettuno, sec. XVIII

In questi giorni a Gorizia (24-26 maggio) si è svolto il nono festival internazionale della storia dedicato ai “Banditi”, ideato dall’ “Associazione culturale èStoria”, con l’Alto patronato della Presidenza della Repubblica e con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività culturali del Comune e della Provincia di Gorizia, con il contributo della Cassa di risparmio della città isontina e dell’Associazione italiana degli Editori. Numerosi (una cinquantina) gli studiosi che vi hanno preso parte: da Anton Blok, antropologo olandese, allo storico Mimmo Franzinelli, da Nicola Tranfaglia all’etnologo e antropologo francese Marc Augé e parecchi altri. Grazie a loro, il banditismo è stato sviscerato in tutte le sue epoche e in tutti i suoi aspetti. Da Pompeo nella guerra contro i pirati al tempo della Roma repubblicana, agli Uscocchi e ai pirati dell’Oceano indiano, da Jesse James a Pancho Villa, dai briganti dell’Ottocento ai nuovi banditi della rete internet.

L’organizzazione è stata perfetta e si è realizzata in una cornice di tende adibite sia agli incontri con il pubblico sia anche a comporre una sorta di piccola cittadella della storia, dove gli interessati avrebbero potuto trovare di tutto: dal libro antico ai libri di recente pubblicazione. Ma la vera cornice degli incontri è stata una città, come questo gioiello dell’Isonzo, che conta più librerie che negozi di generi alimentari, più posteggi gratuiti per biciclette che per macchine, più monumenti e segni della nostra storia nazionale, che costruzioni che ne hanno cancellato il ricordo e il senso.  Ecco perché Gorizia, ai confini con la Slovenia, e prossima alla città che fu di Italo Svevo, rispecchia una realtà che è un crocevia di culture diverse, tra mondo latino e mondo slavo, aperto all’Europa, al suo presente e al suo futuro.

in bici per la città, gratis

Che una disciplina talvolta fatta odiare a scuola, trovi una sua esaltazione in un contesto di amorevoli cure e attenzioni è perciò un fatto che non può non fare che piacere. Ma ancora più piacevole è alzarsi la mattina e trovarsi a colazione con studiosi olandesi o francesi, italiani o americani e recuperare qui, attorno a un cappuccino o a un caffè, il senso della solidarietà e dello scambio, nella ricerca e nella scoperta.

A cena Nicola mi parla del suo incontro con Blok, un vero e proprio veterano della lotta antimafia. Perché il nemico non lo si combatte solo a chiacchiere e a parole, ma con lo studio. Aveva poco più di trent’anni, quando grazie a un anno sabatico, lasciò l’università del Michigan, per recarsi in Sicilia e studiare da vicino il fenomeno mafioso. Era l’inizio degli anni Settanta e il suo capolavoro La mafia di un villaggio siciliano 1860-1960 doveva segnare una pietra miliare nella storiografia di una realtà criminale della quale  soltanto Danilo Dolci si era occupato da non siciliano, dopo il viaggio di Franchetti e Sonnino che ne avevano parlato, ma solo come fatto di costume. A differenza dei due toscani, che erano in giro per l’Italia più per motivi politici che per interessi scientifici, Anton Blok (Amsterdam, 1935) si era recato nell’isola catapultandovisi da vero kamikaze, raggiungendo una delle lande più sperdute del suo entroterra, e stabilendosi qui da antropologo. Il suo interesse era di cogliere il modo di vivere di una comunità, dominata da rapporti di produzione e di lavoro di tipo ancora feudale.

Nella stessa tenda Apih dove avevo parlato il giorno prima, ho incontrato Giuseppe Gulotta che ha passato 22 anni in galera per un delitto mai compiuto, dal quale è stato definitivamente assolto soltanto nel 2012: la strage alla casermetta di Alcamo Marina (1976). Una delle tante stragi siciliane di cui si sconoscono ancora gli autori, ma che è legata probabilmente alle vicende di Gladio e ai traffici d’armi connessi a questa organizzazione occulta di tipo paramilitare.

In ultimo, devo dire, l’essermi trovato a Gorizia ha avuto per me il sapore di un viaggio sulle orme di mio padre. In questa città, infatti, ancora ragazzo di appena diciotto anni, uno dei tanti ragazzi del ’99, si era recato mio padre come soldato volontario nella Grande guerra contro l’Impero austro-ungarico, quando sulla linea del Piave, i soldati italiani bloccarono lo straniero, salvando il territorio nazionale dall’invasione (1917-’18). Altri tempi quelli, ma con un senso dell’italianità che oggi non si sa più cos’è e che servì a forgiare una generazione di giovani che dalle ceneri del fascismo, seppero costruire l’Italia che tutti avremmo voluto, l’Italia che non abbiamo avuto e che ancora vogliamo.

Giuseppe Casarrubea


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