di Matteo Boldrini
In questi giorni di dibattiti politici stiamo assistendo ad un graduale riavvicinamento di posizioni tra i vari leader politici sul tema di un governo di larghe intese (o governissimo) che coinvolga sia il Pd quanto il Pdl.
Tra i soggetti che hanno preso parte alla discussione, oltre a Bersani e Berlusconi, anche gli altri due personaggi che sono stati al centro della scena politica i questi ultimi mesi, ossia Giorgio Napolitano e Beppe Grillo. Il Presidente Napolitano si è sempre dimostrato favorevole ad un accordo di questo tipo, e non manca mai di ricordarlo al Paese e agli esponenti politici, come ha fatto pochi giorni fa richiamando la coraggiosa esperienza delle larghe intese del ’76. E anche Berlusconi ha sempre espresso parere favorevole, senza parlare di Grillo che farebbe di tutto perché i suoi principali avversari si accordassero, permettendogli di continuare a sparare a zero su di loro. L’unico che si è mostrato titubante è stato Bersani, anche perché, tra i vari leader di partito, è proprio quello che più ha da perdere.
Un governo di larghe intese? – formiche.net
L’idea di un governo di larghe intese tra i due principali partiti, al fine di superare lo stallo politico di un parlamento senza maggioranza, non è in via di principio sbagliata. È una pratica comune in molte democrazie di tipo maggioritario nei momenti di crisi, l’Inghilterra ne ha fatto ampio uso in situazioni di emergenza (ad esempio durante le due guerre mondiali) e un governo di coalizione come quello attuale, con i Conservatori alleati con i Liberali, è una prassi decisamente poco comune, che fa ritenere la possibilità di un governo di coalizione come un’eventualità del tutto eccezionale. Diverso poi è il caso delle democrazie di stampo più consociativo dove in qualche modo ogni governo è di unità nazionale, ogni esecutivo in Svizzera è essenzialmente un governo di larghe intese, dato che attraverso la cosiddetta “formula magica” è sempre composto da tutti i partiti, o come l’Olanda ed il Belgio dove il sovrapporsi di fratture sociali diversificate rende lunghe le trattative e i governi complessi, formati spesso dalle forze politiche più disparate. Comunque il caso che i commentatori citano più spesso è senza dubbio quello della Germania, tendenzialmente bipolare per vocazione nonostante la legge elettorale. Questa ha formato nel corso della sua storia due governi di ampia coalizione, il primo risale al 1966 e aprì la strada del governo alla Spd, il secondo, ben più famoso, è quello che è stato definito Grosse Koalition, e che si è aperto nel 2005 a seguito di elezioni che avevano consegnato un parlamento senza alcuna maggioranza possibile (vi era in realtà la possibilità di governare attraverso una coalizione che comprendesse Spd, Verdi e Linke, ma l’opzione fu esclusa in quanto l’Spd non ritenne la Linke una forza “coalizzabile”).
Il governo di larghe intese è dunque una via percorribile in un sistema bloccato e privo di maggioranza. Un governo che includa i principali partiti in parlamento sospenderebbe temporaneamente la competizione tra queste due forze, al fine di dare stabilità in attesa della formazione di una maggioranza chiara alle elezioni successive. Certo è che i due principali partiti che di solito sono i protagonisti della vita politica si ritroveranno ad avere idee opposte su un determinato tema, e anzi saranno tentati di marcare la propria differenza con l’alleato/rivale, per cercare di massimizzare il consenso alla prossima tornata elettorale, con il risultato che spesso non si produrranno riforme incisive.
Ed è precisamente qui che si inserisce il caso italiano, dove un governo di ampia coalizione non produrrebbe alcun beneficio ma anzi rischierebbe di aumentare i danni. Prima di tutto sparirebbe il carattere eccezionale del governo di coalizione (provenendo da un biennio di convergenza Pd/Pdl) routinizzando una prassi che in via di principio abbassa la qualità di una democrazia. Inoltre il nostro sistema pecca di assenza di riforme incisive e fortemente “politiche”, e un governo di larghe intese non potrebbe certo metterle in atto, indipendentemente dai giudizi di valore che ognuno di noi può dare. Eventuali riforme impopolari produrrebbero sempre il rischio che una delle due parti “pugnali” alle spalle l’altra, sbandierando la propria opposizione ad una riforma già votata da entrambi e scaricando la colpa sull’altro (e dopo il governo Monti se ne sono trovate parecchie di situazioni simili).
E allora perché tanti leader politici parlano di questo governo tecnico? Escludendo subito Grillo le cui motivazioni sono già state ampiamente spiegate, Napolitano lo ripropone essenzialmente per senso di responsabilità istituzionale, in quanto probabilmente la ritiene l’unica via più o meno stabile praticabile e per dare una certa continuità al governo Monti, dal Presidente della Repubblica creato e guidato durante questi anni. E di certo non deve sorprendere l’assenso e la spinta in questa direzione da parte di Silvio Berlusconi, entrare in un governo di coalizione col Pd gli permetterebbe essenzialmente di ribaltare il risultato delle elezioni. L’ex premier andrebbe al governo nonostante abbia perso e si sia classificato addirittura terzo, riuscirebbe a portare a casa il massimo risultato possibile nonostante sia marginale alla Camera (dove il centrosinistra ha una solida maggioranza di 345 seggi) e di poco più importante al Senato (dove al centrosinistra mancano quasi 40 seggi), evitando pure una possibile (seppur non probabile) marginalità politica. Bersani ovviamente sa benissimo tutto ciò ed è per questo che si dimostra contrario, ma è tuttavia pressato dall’esigenza di formare un governo (e di eleggere un nuovo Presidente della Repubblica), il che richiede un dialogo obbligato con le altre forze politiche e, vista la miopia mostrata dal M5S, il Pdl resta comunque un candidato disponibile con cui dialogare.
La strada non sembra affatto semplice, il Paese ha comunque bisogno di riforme prima di tutto istituzionali, per garantire una maggiore efficienza al nostro sistema politico e le strade da intraprendere restano esigue. In realtà vi è un’altra opzione da poter mettere sul tavolo, un’opzione rilanciata da Bersani e proposta anche dallo stesso Presidente Napolitano. Infatti il famoso governo del ’76 non fu un governo di coalizione, la coalizione di governo era la stessa che aveva governato fino ad allora, soltanto che il principale partito di opposizione, il Pci, si asteneva o non votava la sfiducia al governo, senza grandi coalizioni o governi di larghe intese. Sarebbe una specie di governo “di minoranza”, altra soluzione adottata particolarmente in certi Paesi scandinavi per superare stalli di questo tipo, finalizzata alla realizzazione di un certo tipo di riforme prima di nuove elezioni. Quindi Silvio Berlusconi si dovrebbe astenere (o dare una fiducia “pilotata”) ad un governo Bersani in Senato, escludendo ovviamente che una posizione di questo tipo possa essere assunta da Grillo.
Questa fiducia di certo non sarebbe risolutiva o sanerebbe i mali del nostro sistema, ma sarebbe un gesto di enorme responsabilità che fornirebbe una via d’uscita, seppur parziale, dal pantano in cui siamo capitati. Ma bisognerebbe anteporre gli interessi per le riforme agli interessi del partito, e i soggetti che possiedono le capacità di fare questa scelta non sembrano possederne la volontà.
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