Come si è arrivati a questo punto? È una crisi post-elettorale o viene da lontano e affonda le radici nelle ambiguità con cui è stato costruito il Partito democratico?
«Il primo errore è stato compiuto nel 2011, quando il Pd ha appoggiato la nascita del governo Monti. Dovevamo andare a votare subito, invece. Berlusconi all'epoca era al suo minimo storico, Grillo non esisteva, Monti non sarebbe entrato in politica. Conosco l'obiezione: la reazione dei mercati, la speculazione... Ma i mercati vogliono governi stabili, a stabilizzare l'euro è stato Mario Draghi, e poi Barack Obama, le politiche del governo Monti non hanno minimamente emozionato i mercati né nel bene, né nel male. In compenso, hanno accentuato la recessione, hanno impedito la crescita, con un pesante tratto anti-popolare che ha spostato consensi sul movimento di Grillo. Alle elezioni il Pd ha perso tre milioni e mezzo di voti. Se ne sono andati in silenzio, senza nessun annuncio particolare, verso l'astensione o verso il Movimento 5 Stelle: noi non ce ne siamo neppure accorti».
Qual è stato lo sbaglio di Bersani? Avrebbe dovuto dimettersi subito dopo il voto? O, al contrario, non mollare?
«L'errore è stato fatto con le primarie. La campagna elettorale è stata sottotono perché avevamo concentrato tutte le nostre energie nello scontro tra Bersani e Renzi. C'era stato un ritorno positivo di visibilità che abbiamo scambiato per compenso. Era un'illusione, come si è visto. E poi, in tre giorni, sono esplose le contraddizioni che covavano da anni. Prima la direzione ha votato all'unanimità per proporre sul Quirinale un nome condiviso con il Pdl. Quando quel nome è stato trovato, è stato sacrificato l'incolpevole Franco Marini. Poi si è cambiato orizzonte: Romano Prodi era l'ipotesi esattamente opposta, rappresentava il rifiuto di un rapporto con il centro-destra. In 24 ore i franchi tiratori hanno buttato giù anche Prodi. A quel punto non restava che Napolitano: ma si sapeva che lui voleva le larghe intese, non era un semplice auspicio, lo aveva detto prima».
Fosse stato in Parlamento, lei avrebbe votato la fiducia al governo Letta?
«No, non l'avrei votata».
Lo sa bene cosa dicono i suoi compagni di partito: nella situazione data non c'erano alternative. La fiducia è una necessità.
«Io avrei cercato di fare la mia parte prima. Il Pd doveva proporre per il Quirinale un candidato con l'obiettivo di dividere i grillini, Stefano Rodotà o Gustavo Zagrebelsky, Berlusconi non li avrebbe accolti con gioia ma avrebbe avuto difficoltà a presentarli come avversari politici come ha fatto con Prodi».
Ora però il governo c'è. Cos'è che non le piace: la compagnia o i contenuti?
«L'ha detto il presidente Napolitano: questo è un governo politico. Come definirlo altrimenti, se il presidente del Consiglio è il vice-segretario del Pd e il suo vice è il segretario del Pdl? È un governo politico che ha l'obiettivo di durare il più possibile con un programma indefinito. Io vedo che nei contenuti gli otto punti con cui si è presentato il Pd di Bersani sono stati derubricati. Sulle politiche economiche e sociali i due schieramenti sono molto lontani e il terzo raggruppamento, quello di Monti, è più vicino al centro-destra che a noi. Sarebbe indispensabile modificare la pessima legge sulle pensioni, cambiare molti punti della legge Fornero sul mercato del lavoro, ma avranno la forza di farlo? Si dice, l'ha detto anche Letta presentando il suo governo in Parlamento, andremo in Europa a rinegoziare. Ma il governo Monti si è ben guardato dal farlo: è credibile che lo facciano ora gli stessi soggetti che facevano parte di quella maggioranza? Il rischio della continuità è fortissimo».
"Se il Pd arrivasse alle larghe intese non esisterebbe più", diceva lei fino a qualche giorno fa. All'appuntamento ora ci siamo arrivati, Pd e Pdl hanno votato per il governo Letta. Ci sarà anche una scissione?
«Non vedo in arrivo fratture o divisioni. Temo un'altra cosa: la scissione silenziosa tra il Pd e i suoi elettori. Tre milioni se ne sono già andati per votare Grillo o per astenersi, i prossimi non faranno manifestazioni, semplicemente se ne andranno, in modo più consistente».
Letta ha chiesto di aprire una fase di pacificazione, di chiudere con vent'anni di guerra tra berlusconiani e anti-berlusconiani. Lei vorrebbe mantenere il muro?
«Non penso che in linea di principio si possa negare la possibilità di un rapporto di collaborazione con la destra. Ma non possiamo ripetere per anni che siamo vittime di un'anomalia, che esiste la destra berlusconiana, e poi dimenticarcelo come se niente fosse. Tanto più che l'anomalia non è stata affatto risolta: se Berlusconi venisse condannato in uno dei suoi processi salterebbe tutto in un istante».
Esiste, in realtà, un'altra anomalia: quella italiana è l'unica sinistra d'Europa che non riesce ad arrivare con un suo esponente alla guida del governo vincendo le elezioni. Al posto dell'ex Pci Bersani c'è l'ex dc Letta. La sindrome dei figli di un dio minore, la chiamava D'Alema...
«L'anomalia del Pd è che ha paura di essere identificato con la parola sinistra. Nel Parlamento europeo siedo nel gruppo dei socialisti e dei democratici, che si è chiamato così per accogliere noi italiani. Ma non siamo mai riusciti a entrare nel Partito socialista europeo. Troppo estremisti? Macché, ci sono fior di moderati che però non hanno remore a definirsi socialisti. Il tema non è la matrice ideologica, anche se consiglierei di rivalutare il socialismo dell'800 e il comunismo italiano, che non è una storia di soli errori. Ma il problema è un altro: noi del Pd per paura di dirci di sinistra siamo un'entità indistinta che non riesce a collocarsi neppure sul piano internazionale».
In compenso, si è collocato al governo italiano con il Pdl. In Germania la Grande coalizione si fa tra democristiani e socialdemocratici, identità forti. Da noi?
«Da noi c'è il rischio che l'identità ci sia data dagli altri, dal Pdl. Quando la tua identità è così debole, sei terra di conquista, oggetto di condizionamenti. Oppure sei un semplice raggruppamento di correnti. Matteo Renzi per mesi ha ripetuto che non avrebbe fatto una corrente, poi su Marini ha imposto ai suoi parlamentari un vincolo di fedeltà contro la linea del partito. Almeno nella Dc il sistema della correnti era regolato, il Pd è una federazione di correnti senza regole. Non ho nostalgia del vecchio centralismo democratico, ma non voglio neppure un partito in cui ognuno vota come vuole».
Come si ferma la balcanizzazione del Pd?
«Con un congresso vero. Dobbiamo discutere di quale identità, di quali valori, di quale modello di partito abbiamo bisogno. Oggi siamo a mezz'aria, in modo autolesionista e arrogante, pretendiamo di insegnare ai socialisti cosa devono fare. Dobbiamo rinnovare la nostra politica che deve essere coerente con i nostri valori. E non dare per scontato che dal governo vengano risultati tali da riavvicinare gli elettori. È l'ultimo appuntamento, poi non c'è altro che la fine del Pd».
Serve un nuovo partito di sinistra, come scrive Fabrizio Barca nella sua memoria?
«Barca è uno di noi, si è appena iscritto al Pd. È un amico, ci ha guardato finora dall'esterno ma da vicino. E ci ha proposto alcune correzioni che andrebbero ascoltate».
Sarà. Ma intanto con Barca e con Rodotà vi siete visti al convegno della Fiom di Landini: è la prova generale di un nuovo partito di sinistra? Magari il partito del Lavoro di cui si parlò quando a dirigere la Cgil c'era lei...
«Il convegno è stato immaginato due mesi fa, per parlare di reddito minimo garantito. Poi, nel giro di poche ore io, Barca e Landini abbiamo appoggiato Rodotà come candidato al Quirinale ed è sembrato che volessimo fare un partito insieme. Così non è, quel convegno è servito a parlare di un tema di cui la Fiom si occupa meritoriamente e su cui invece il Pd tace. È su questioni come queste che capisci se il Pd c'è o non c'è».
Nel governo gli ex Ds sono scomparsi o quasi (resistono come ultimi dei mohicani Andrea Orlando e Flavio Zanonato). Per restituire identità alla sinistra può servire l'elezione di un segretario che viene da quella storia: Epifani, Fassina? O lei stesso?
«In passato abbiamo votato per le ipotesi di partito che si intravvedevano nel profilo del candidato alla segreteria, con tantissime contraddizioni. Ora dobbiamo invertire il percorso. Non basta bilanciare un dirigente del Pd moderato che guida il governo con uno più radicale alla guida del partito».
Renzi può essere il prossimo candidato premier, come sostiene anche Barca?
«Renzi parteciperà al prossimo congresso, allo stesso titolo di tutti gli altri».
Nel corso degli anni sono falliti il partito forte modello D'Alema, il partito all'americana di Veltroni e il partito pesante di Bersani. Conclusione: la sinistra morirà democristiana, con Letta? O addirittura berlusconiana, come ha scritto Ilvo Diamanti?
«Non mi ha mai convinto il modello del partito liquido. Io non rinuncio a credere nei partiti, sono convinto che il Pd sia il partito di cui ha bisogno la sinistra. E penso che ora sia il momento per riproporre un partito radicato. Ma non moriremo: la sinistra avrà sempre bisogno di partiti che rappresentino le sue idee».