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una recensione di Monia Gaita a Le intenzioni del baro
In questi versi le parole investono con incalzanti raffiche di polivalenza la dimensione ontologica e quella metafenomenica attraverso una reduttasi all’essenziale in cui si ràdica l’urgenza inalterabile di una verità sussunta nelle colonne tortili del divenire. Il ricorso martellante all’inversione sintattica ( iperbati e anastrofi), raffittisce il processo sovversivo e manomissorio di un ordine o regolarità in cui l’autrice, Viviana Scarinci, stenta a rinvenire lībrae d’appartenenza: “ nello sproposito notturno/ di un incontro scioglieremo il nodo/ che lega i corpi in un’aureola/ di fattezze oblunghe/ richiuse nell’abbraccio/ che immaginiamo di essere”. Anche il tìtolo della silloge “Le intenzioni del baro” stringe una relazione di parentela con l’assurdo che governa il mondo, provando, a dispetto del male, ad amarlo.
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“Le intenzioni del baro è per me a posteriori il chiaro frutto di un’aritmia. Ed è una raccolta di poesie verso cui nutro ancora una profonda avversione. Lungi quindi dall’essere nel mio sentire lettera morta, Il baro sembra che viva una sua strana contemporaneità inespressa dalle forme che con sforzo evidente e costellandone l’andamento di errori, ho tentato allora scrivendo. Eppure molte di quelle poesie conservano una vitalità in cui ancora mi riconosco. Le avverto come una materia su cui lavorare capillarmente, forse ancora un’occasione materiale di traghettare l’incompiutezza da livello e a livello. Di trovare in quell’aritmia una successione che non era quella scelta allora e di quella lingua rintracciare il limite che già accennava ad altro” v.s.
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