GRAFFITI E GRAFFIATI - Quale riforma? E il reddito minimo garantito?

Creato il 22 marzo 2012 da Calcisulcalcio

Articolo 18, P.Iva, sostegno ai precari. Posso continuare la lista. Prima di esprimere una mia opinione sulla riforma del mercato del lavoro targata "Monti", aspetto ancora qualche giorno. Vediamo se cambia qualcosa e in che modo. Ieri ho trovato sul web un articolo tratto da MicroMega, datato 2005. Si parla di reddito minimo garantito e di come funziona in Europa. O come funzionava, non credo però sia cambiata molto la situazione rispetto a qualche anno fa. Come in Italia, quando cambierà qualcosa? In meglio ovviamente.. e soprattutto, sapete cosa è il reddito minimo garantito? Ho riportato l'articolo parzialmente (alla fine del post vi è la fonte, dove poter trovare il pezzo integrale) tuttavia rimane alquanto corposo. Ma sono sicuro che non avrete problemi a leggere con attenzione quello che non vi hanno mai spiegato:Il reddito minimo garantito.


di Daniele ColtrinariQuello che sto per raccontare potrebbe suonare a molti incredibile. In Gran Bretagna a partire dai 18 anni chi non ha un lavoro e non ha risparmi per più di 12.775 euro ha diritto all' Income-based Jobseeker's Allowance, a circa 300-350 euro mensili per un periodo di tempo illimitato. A questa cifra si devono aggiungere l'affitto dell'alloggio (Housing Benefit) e tutta una serie di assegni per i figli. In Francia, invece, per avere diritto al Revenu minimum d'insertion (Rmi) bisogna aver compiuto 25 anni (non si applica la condizione dei 25 anni per i disoccupati con figli). Il Rmi prevede (nel 2005) l’integrazione del reddito a 425,40 euro mensili per un disoccupato solo, che diventano 638,10 euro se in coppia (proprio così, laicamente: couple); 765, 72 se la coppia ha un figlio, 893,34 per due figli e 170, 16 euro in più per ogni altro figlio. Una coppia con tre figli arriva quindi ad avere più di 1.150 euro di Revenu minimum d'insertion. Nel nostro paese non si è mai saputo bene che cosa sia nella realtà dei paesi europei il reddito minimo. Non siamo consapevoli di rappresentare (in compagnia della Grecia) un'eccezione in Europa. Il reddito minimo è un sussidio riconosciuto a tutti come diritto soggettivo: ne beneficiano coloro che non hanno un lavoro o hanno un reddito basso. In Germania la riforma restrittiva introdotta nel 2005 indica che tra 16 e i 65 anni si può disporre dell'Arbeitslosengeld II di 345,00 euro al mese. In più i costi dell'affitto e del riscaldamento (Miete und Heizkosten). Riporto un esempio preso direttamente da un fonte ufficiale tedesca. Una famiglia composta da due figlie di 12 e 14 anni, nella quale il padre è disoccupato e la madre ha uno stipendio da un lavoretto part-time di 750 euro lordi e le due figlie 308 euro al mese di Kindergeld (che è un versamento che riguarda i figli), è considerata dalla riforma bisognosa di un incremento di reddito. Fatti i dovuti calcoli, questa famiglia ottiene un'integrazione del salario che la porta a disporre complessivamente di 1665 euro al mese netti .

In Italia non solo non c'è niente di simile, ma – fatto questo da non sottovalutare – qui da noi riesce a molti già difficile credere a quanto appena letto. Gli increduli non si rattristino, ci siamo passati tutti: questo è il genere di informazioni più trascurate in assoluto dai nostri media. Così ci riesce difficile credere che in Spagna Zapatero progetti di portare il salario minimo interprofessionale a 600 euro per 14 mensilità, ma non facciamo alcuna difficoltà a credere che da noi si possa lavorare «regolarmente» in un call center per soli 300 euro mensili (o addirittura, come dimostra un'inchiesta del Manifesto, per 100 euro). Come si è potuti arrivare a questo?
Già nel lontano 24 giugno 1992 l'«Europa» aveva invitato gli Stati membri ad adottare il reddito minimo nei loro sistemi di welfare. Ma la questione, in Italia, non è mai assurta veramente alla dignità del pubblico dibattito. Questo fatto suscita stupore nello stupore. Una cosa infatti è nominare di sfuggita il reddito minimo d'inserimento, un'altra è spiegare bene che cosa è in Europa il reddito minimo d'inserimento. La raccomandazione 92/441 Cee sulla Garanzia minima di risorse impegnava già nel 1992 tutti gli stati membri ad adottare delle misure di garanzia di reddito come un elemento qualificante del modello di Europa sociale. Si apprende così che non c'è dunque solo Maastricht (e i fondi europei gestiti a pioggia). Ma vai a saperlo! La Francia è arrivata molto in ritardo al reddito minimo rispetto all'Inghilterra o alla Germania: lo ha adottato "solo" a partire dal 1 dicembre 1988. Mitterand in persona ha presentato solennemente alla nazione francese l'adozione del Revenu minimum d’insertion social con una manifestazione alla Sorbonne, ad indicare il coinvolgimento del mondo intellettuale nella conquista di questo istituto . Da noi, quasi vent'anni dopo, se ne parla ancora tra addetti ai lavori. Un’inchiesta approfondita di carattere sociologico dovrebbe far luce sulle ragioni della perplessità italiana verso il reddito minimo. È possibile stilare una specie di casistica delle reazioni e delle obiezioni ricorrenti in Italia una volta che si sia posti di fronte a questa realtà. Dopo la meraviglia (la meraviglia davanti a una realtà condivisa da milioni di persone oltre le Alpi), la tendenza di solito è quella di ridurre l'ignoto al noto. Questa attitudine spontanea suggerisce sistematicamente di attribuire all'Italia una serie di difetti e problemi strutturali che renderebbero da noi impossibile qualcosa come il Rmi. Non ce lo meritiamo! Chi andrebbe più a lavorare? Oppure: aumenterebbe il lavoro nero! Ci dovrà pure essere, si pensa, una qualche Ragione Fondamentale che spieghi perché non si è adottato anche da noi il reddito minimo. È in sé, infatti, talmente poco credibile che possa non essere stata tenuta nel debito conto l'esperienza che hanno fatto gli altri paesi europei di problemi come la disoccupazione e la precarietà - che da noi sono gravissimi - che è comprensibile che si cerchi una Giustificazione.
Eppure, l'esperienza più che decennale degli altri paesi rimane come imbrigliata tra le vette alpine, e non riesce ad arrivare fin qui. Quello che si dice è poco, non ha colore né concretezza. L'idea che filtra da noi è che si tratti di misure dirette a contrastare la povertà, l'esclusione sociale. E qui immaginiamo, credo, delle situazioni limite: barboni, senza tetto. Per qualche oscura ragione non si distingue con chiarezza che il carattere universalistico di questi sussidi si rivolge per principio a tutti. Ma in Italia sembra quasi che solo con la giustificazione del soccorso dei poveri si possa accettare l'idea del reddito minimo. Le ragioni sono invece più complesse. Il reddito minimo è una delle ragioni che emancipa molto presto i figli dalle loro famiglie in molti paesi europei. I figli della mia padrona di casa in Inghilterra se ne andarono di casa raggiunti i 18 anni con il loro bravo reddito minimo. E la madre non se la passava affatto male: aveva un bel lavoro e una bella casa in uno dei migliori quartieri di Bristol. Certo, è vero, i suoi figli erano "poveri", come sono "poveri" però la maggioranza dei diciottenni. Basterebbe riflettere sul fatto che hanno diritto al reddito minimo, in Gran Bretagna – come già detto - coloro che, oltre a non avere un lavoro, non superano i 12.775 euro di risparmi per capire che la parola "povertà" è equivoca. In Germania, come in Svezia, il 50% di coloro che ricevono il reddito minimo sono giovani sotto i 21 anni .
Una delle ragioni della freddezza italiana verso il reddito minimo è l'idea (diciamolo, detestabile e ridicola) che l'assistenza debba provenire dalla famiglia. In Inghilterra, invece, oltre al Child Benefit, «which is paid to parents», esiste l'Education Maintenance Allowance, il cui aspetto affascinante è di non essere un sussidio versato ai genitori ma ai figli, «direct into the students own bank account», nel loro conto bancario . In ogni caso, però, pur con tutta la nostra dedizione alla famiglia, noi spendiamo la metà di quanto spendono gli altri per la famiglia. In Francia le coppie (che lavorino o meno) con almeno due figli hanno diritto alle Allocations familiales: 115 euro al mese; con tre figli gli euro diventano 262 e se i figli sono più di tre a questa cifra vanno aggiunti 147 euro (per ogni figlio in più). Per quanto tempo? Fino al compimento del ventesimo anno di età. Come si ottiene il sussidio? Non occorre fare domande. Viene versato automaticamente. La Prestation d'accueil du jeune enfant (Paje) è invece un aiuto pensato per ogni nato, ma anche per ogni bimbo adottato o «accolto in vista dell'adozione»: varia da 138 a 211 euro. Per la baby sitter sono previsti altri soldi. Poi c'è la Allocation de rentrée scolaire: è concessa a chi non supera un certo reddito (16.726 euro l'anno per un figlio; 20.586 euro per due figli; 24.446 per tre figli). Ammonta a 257, 61 euro ed è versata a fine agosto per tutti i ragazzi che vanno a scuola. Serve per comprare libri, colori e quaderni. Anche per quanto riguarda l'affitto in Francia la condizione per usufruire dei contributi è che l'appartamento sia «decente e abbia una superficie minima, proporzionata al numero degli occupanti». Mancando queste condizioni, il disoccupato o chi ha un reddito basso, perde il diritto alla sovvenzione. Se poi si decide di ristrutturare il proprio alloggio, sia che si sia proprietari sia che si sia inquilini, si ha diritto al Prêt à l'amélioration de l'habitat, un prestito statale.
Persino con Margaret Thatcher al governo, il reddito minimo funzionava senza problemi. Questo lascia capire quanto bisogno abbiamo noi di "cose di sinistra", se persino al tempo della Thatcher - almeno rispetto a queste questioni - gli inglesi stavano meglio di noi oggi. Non so quanti tra noi si rendano conto del fatto che la nostra situazione è imparagonabile a quella inglese, o francese, tedesca … perché è tra le peggiori in Europa: lo dice Eurostat. Da noi si trovano insieme questi fattori: maggior divario tra i redditi, maggior numero di disoccupati e precari, assenza totale di reddito minimo, affitti delle case alle stelle.
Differenza tra indennità e reddito minimo d'inserzione sociale. Per non incorrere in equivoci e nelle trappole del gioco delle tre carte occorre distinguere indennità di disoccupazione e reddito minimo. Per il nostro discorso non interessa l'indennità di disoccupazione a favore di chi aveva un lavoro e lo ha perso, che esiste anche in Italia, ed è finanziata dai contribuiti sociali. Interessa, invece, il reddito minimo d'inserzione, che è finanziato nei paesi europei dalla fiscalità generale, e che in Italia non esiste. La differenza è enorme. L'indennità di disoccupazione è un'assicurazione. Sicché, è vero che è prevista anche in Italia, ma attenzione: solo i lavoratori più «tipici» se la possono permettere, perché solo questi versano i contributi necessari. I precari, i lavoratori cosiddetti «atipici», coloro che ne avrebbero dunque più bisogno, non hanno, invece, alcuna indennità. Inoltre, l'indennità di disoccupazione dura (solo da pochissimo) un anno, dopo di che buona fortuna. Al contrario in Europa, il reddito minimo copre sia chi non ha ancora un lavoro sia chi ha perso il lavoro e non ha diritto all'indennità o perché l'ha esaurita o perché non ha versato i contributi. Nel Regno Unito la distinzione è chiara già nei nomi delle due diverse prestazioni: Contribution-based Jobseeker's Allowance per l'indennità di disoccupazione e Income-based Jobseeker's Allowance per reddito minimo garantito. Per la stessa ragione esiste l'Income support che è previsto, però, per chi lavora meno di 16 ore a settimana . Queste forme di sostegno del reddito, naturalmente, sono illimitate nel tempo. Per avere l'indennità di disoccupazione in Italia occorrono almeno due anni di contributi, oppure 52 contributi settimanali negli ultimi due anni. In Francia per aver diritto all'indennità è necessario aver lavorato almeno 6 degli ultimi 22 mesi. L'ammontare dell'indennità viene stabilito con una media della retribuzione degli ultimi 12 mesi, secondo un sistema che salvaguarda i redditi più bassi. La durata dell'indennità varia da un minimo di 7 mesi ad un massimo di 60. A ciò si aggiungono circa 10 euro fissi al giorno, in determinate circostanze.
In Germania l'indennità di disoccupazione si chiama Arbeitslosenhilfe. Viene calcolata in base al netto dell'ultimo stipendio (il 60% e con figli il 67%), e non è una voce soggetta a tassazione. Fino al 2002 si aveva diritto alla sovvenzione dell'Arbeitslosenhilfe anche con un'occupazione di sole 12 ore alla settimana. Sarà sopravvissuta alla riforma restrittiva questa opportunità? Diciamo che per noi cambia veramente poco. La durata dell'indennità di disoccupazione varia dai 6 ai 32 mesi (per chi ha 57anni). Ma a partire dal 31.01 06 si porterà a 12 mesi con un massimo di 18 mesi per chi ha più di 55 anni. Dopo questi 12 mesi gli Arbeitslosen tedeschi dovranno accontentarsi dell' Arbeitslosengeld II che di fatto è illimitata. Naturalmente, queste leggi si applicano anche agli stranieri che risiedono in Germania con regolare permesso di soggiorno. I siti ufficiali hanno immancabilmente apprestato delle spiegazioni per loro, traducendo la normativa in chiari punti in italiano, arabo, turco .
Un altro capitolo importante riguarda le condizione per ricevere il reddito minimo. Il disoccupato è aiutato a condizione che voglia lavorare in futuro. Ora c'è un problema che noi non ci poniamo. In Europa succede che il disoccupato possa ricevere delle offerte di lavoro addirittura dall’ufficio di collocamento. Non deve sfuggire un fatto essenziale: in queste nazioni imprevedibili e bizzarre, gli uffici di collocamento sono molto efficienti. Ora la cosa essenziale è notare che il lavoro in ogni caso deve essere conforme alle qualifiche del lavoratore e può essere rifiutato senza perdere i vari sussidi qualora non rispondesse a queste qualifiche e se non rientrasse in determinati requisiti che sono definiti per legge. Ad esempio, se è troppo lontano dal proprio luogo di residenza. In Danimarca, a proposito di modello nordico, i disoccupati di lungo periodo hanno l'obbligo accettare il lavoro che l'ufficio di collocamento trova per loro, pena la progressiva diminuzione del sussidio.
Stupisce che la frase "il mercato del lavoro richiede oggi flessibilità" non si completi automaticamente con "e un reddito minimo garantito, come in tutti gli altri paesi europei". Insomma, è un fatto politicamente rilevante che in Italia non sia abbia una rappresentazione adeguata di che cosa sia il reddito minimo in Europa. C'è poco da girarci intorno. È solo colpa dei mezzi di comunicazione di massa? Da quando, vent'anni fa, feci esperienza diretta di queste cose vivendo in Inghilterra, ho avuto sempre l'impressione che in Italia si vivesse chiusi in una sorta di realtà parallela incomunicante con il mondo circostante. Curiosamente, sappiamo tutto delle bizzarrie della monarchia inglese, grazie ai "gustosi" servizi dei tg nazionali: caccia alla volpe, monellate dei principotti, matrimoni e tradimenti, diari e scandali. Non interessa invece il fatto che, mentre disoccupazione e precarietà in Italia sono prive di una reale copertura che non sia la famiglia, in Inghilterra chi non lavora, chi ha un reddito basso, o anche solo un diciottenne con la chitarra in mano, viene spesato anche dell'affitto della casa.
L'introduzione del reddito minimo non si scontra con insormontabili limiti economici. Lo dimostra il fatto che molti paesi lo adottano. Per certi versi (e sorvolando sulle differenze sul modo di intenderlo) il reddito minimo mette d'accordo economisti molto diversi tra loro. L’economista neoliberista e premio Nobel Milton Friedman ha sostenuto con forza negli Usa, oltre alla celebre «riduzione delle tasse», anche l’opportunità dell’introduzione del reddito minimo, portando dalla sua parte molti economisti. Dall'altra parte, però, sostenitore del reddito minimo è stato anche l’economista neokeynesiano, anch’egli premio Nobel, James Tobin. In Italia Tito Boeri è spesso intervenuto a sostegno dell’introduzione del reddito minimo nel nostro paese.
L'idea dominante da noi è che in tema di welfare nessuno possa fare miracoli, con l'eccezione di alcuni paesi alieni, come la Danimarca, la Svezia, la Norvegia. Così, paradossalmente, l'esperienza scandinava ha avuto da noi l’effetto di nascondere tutto quello che avveniva nel resto d’ Europa. Gli scandinavi fanno miracoli, il resto del mondo è invece come noi. Proprio l’eccezionalità ha finito per suggerire che non sono paesi il cui esempio possa essere seguito. Sì è vero, hanno tante belle cose : ma sono pochi, hanno più risorse, sono protestanti e via discorrendo. Si tratta, come ricorda ad esempio Michele Salvati (MicroMega, 1/05 p. 48), di «paesi piccoli, socialmente molto omogenei, di cultura protestante, e con sindacati e partiti molto robusti, esempio di un modello 'neo-corporativo', (e dunque di élite colluse e autoreferenziali) di cui i politologi fecero un gran parlare alcuni anni addietro». Capisco il senso. Tuttavia, per autoreferenzialità neocorporative e collusioni partitiche noi non siamo da meno a nessuno, anche senza il welfare dei danesi.
Il problema è che, indipendentemente dalla risposta che si possa dare al ruolo del protestantesimo nell’ efficienza dello stato sociale, ad essere più avanti di noi non sono solo gli alieni scandinavi. L'Argomento demografico («sono pochi, dunque ricchi»); l'Argomento antropologico («i nordici sono rigidi, onesti e democratici per natura»); l'Argomento svizzero o elvetico («sono paesi chiusi che consumano in beata e piccina autarchia, misteriose risorse di cui solo loro dispongono») crollano di fronte alla Francia, alla Germania, alla Gran Bretagna, alla Spagna, al Portogallo, all'Austria. Crollano di fronte alle raccomandazioni inascoltate dell'Unione Europea. Anche l'Argomento autodenigratorio, semplice variante dell’Argomento antropologico («figurarsi in Italia che cosa succederebbe con il reddito minimo, nessuno lavorerebbe più o tutti lavorerebbero al nero»), vacilla se si considera che il reddito minimo è molto più trasparente delle pensioni di invalidità. E caso mai il discorso va rovesciato: proprio in un paese dove, come si dice, «la mafia trova lavoro», sarebbe opportuno asciugare il disagio sociale. Proprio in un paese disinibito al voto clientelare, sarebbe opportuno, contro le soluzioni discrezionali, fissare come diritto soggettivo il reddito minimo. Del resto è un discorso vecchio come il cucco. Il reddito minimo renderebbe gli individui meno dipendenti e più liberi: più liberi anche dai condizionamenti prodotti dalle nostre élite autoreferenziali a caccia di clientele e collusioni.
Nonostante si sia disposti a credere il contrario, l'Italia spende meno degli altri paesi in welfare. Non sempre i sistemi dei diversi paesi sono comparabili, ma un'idea generale i numeri la danno comunque. Secondo Eurostat l'Italia è tra i paesi Ue che dedicano meno risorse alla protezione sociale. In media, nel 2001 i Quindici dedicavano il 26,5% del proprio prodotto interno lordo (Pil) alle spese per la protezione sociale; percentuale che in Italia scende al 24,5% (undicesimo posto nell'Ue a 15). Il livello massimo si registra in Svezia (30,3%) ed il minimo in Irlanda (14,6%). L'Italia è in assoluto il paese che dedica la maggior parte delle risorse destinate alla protezione sociale alle pensioni (62,2% contro il 46,5% della media europea), ed è invece nelle ultime posizioni per la percentuale di risorse assegnate alle famiglie (4,1% contro 8%), ai disoccupati (1,6% contro 6,3%) e alle due funzioni alloggio ed esclusione sociale (complessivamente, 0,3% contro 3,6%).
La precarietà diventa anche un modo per guardarsi intorno e per scegliere. È una realtà della quale potrei portare molti esempi di amici e amiche francesi o inglesi C'è chi con il reddito minimo ha potuto investire del tempo per la preparazione del concorso per insegnare nella scuola; chi ha potuto affrontare le incertezze della precarietà che comporta la carriera accademica. «Le Rmi» non ha permesso un periodo di vita nel lusso, ha però concesso loro il lusso di scegliere la propria vita. Al contrario, potrei fare il caso di una giovane studiosa italiana di manoscritti medievali, molto promettente, che oggi lavora come vigile urbano. A 28 anni, Guido partì per l'Inghilterra con alle spalle un corso di laurea in lettere non terminato e davanti il modesto progetto di imparare l'inglese per poi, forse, tornare in Italia. A 28 anni le opportunità gli sembravano (a torto) ristrettissime. Dopo aver studiato l'inglese in un bel college, pagando una quota ridotta del 75% in quanto disoccupato, si iscrisse all’università di Bristol. Gli riuscì poi di fare quello che in Italia non era riuscito a fare: laurearsi. E non solo. Lo lasciai che studiava l'inglese, lo ritrovai 15 anni dopo che insegnava all'università. (Fonte: www.retedellaconoscenza.it, articolo di Gianni Perazzoli, da MicroMega 3/2005)

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