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Gramsci e il concetto di “rivoluzione passiva”: il “berlusconismo”

Creato il 22 dicembre 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno

Gramsci e il concetto di “rivoluzione passiva”: il “berlusconismo”
In un lontano convegno di Cagliari del 1967 sul tema Gramsci e la cultura contemporanea, il sociologo Alessandro Pizzorno ricordava come la nozione di “crisi organica” fosse l’elemento più interessante della teoria politica di Gramsci. Si diceva sorpreso che non fosse stata fino a quel momento oggetto di approfondimento nella sterminata letteratura gramsciana. Una crisi organica può dar luogo alla rivoluzione, ma anche alla reazione. O semplicemente svolgersi lasciando il potere in mano a chi lo deteneva. Una “crisi organica” nei tempi moderni può risolversi in un lungo processo storico di scomposizione e di ricomposizione di un intero sistema sociale. Durante questo processo un nuovo blocco sociale, espressione degli interessi dominanti, si sostituisce integralmente o parzialmente a un vecchio blocco sociale. A sua volta, le trasformazioni sociali, che avvengono all’interno di questo processo, possono dare corso ad una nuova “formazione sociale”. Oppure apportare soltanto a dei cambiamenti al “vecchio sistema” per meglio assestarlo e rafforzarlo. Durante questo periodo di convulsione, il sistema in via di scomposizione e quello in via di ricomposizione possono anche “convivere”, e generare al suo interno un lungo periodo di tensioni sociali, che si risolverà o con i cambiamenti dei connotati del sistema in via di scomposizione, facendo così rientrare la crisi, o con la sua estinzione, dando forma ad un nuovo sistema sociale.
Le crisi si possono risolvere anche mediante una svolta autoritaria. In tal caso avremo:
1) una trasformazione del ceto politico e burocratico, che oltre ad esercitare un dominio politico eserciterà anche una direzione ideologica (un’“egemonia”), la qual cosa, anche se risulta essere un’emanazione organica del blocco sociale dominante, costituisce comunque una novità rispetto al passato;
2) un rafforzamento del dominio politico, senza direzione ideologica (cioè senza “egemonia”).
Per Gramsci, soltanto la prima delle due soluzioni costituisce una forma di “rivoluzione passiva”, nella quale la priorità è data alla combinazione dell’elemento politico e di quello ideologico. Nell’altro caso, invece, avremo soltanto una soluzione politico-militare della crisi, che sfocia in un regime autoritario che non si preoccupa affatto di costruire una base di consenso. Le due forme di soluzioni autoritarie non possono essere qualificate entrambe come “reazionarie”, se con questo termine si vuole esprimere un’involuzione rispetto alle conquiste sociali realizzate nel presente, come accade effettivamente nella seconda soluzione. Se la prima lo è nei confronti dei ceti produttivi, in quanto appunto li si vuole portare su posizioni arretrate, in sé non lo possiamo definire come tale, in quanto per costruirsi una base di consenso deve per necessità apportare delle novità in ogni settore della vita sociale. Una “crisi organica” può anche essere risolta attraverso una ristrutturazione delle forze di produzione, che, sebbene lascia inalterati i rapporti di produzione, tuttavia ne altera la composizione di classe, rivalutando le classi produttive su quelle parassitarie. Anche in questo caso avremo una forma di “rivoluzione passiva”, con la differenza rispetto all’altra che l’elemento di novità non è costituito dal livello politico-ideologico, bensì da quello economico: la rivoluzione passiva di carattere politico-ideologico punta sulla rivalutazione della classe media e “parassitaria”, la seconda forma, invece, di carattere economico, punta sulla composizione delle classi produttive. Nel nostro secolo, le due forme di “rivoluzioni passive” che si sono contemporaneamente verificate sotto gli occhi di Gramsci sono state rispettivamente il “fascismo” e il “fordismo”.
Il “berlusconismo”, nei termini gramsciani, sarebbe la forma più attuale di “rivoluzione passiva”, con la differenza che mentre il fascismo aveva il suo blocco sociale nel ceto parassitario del paese, il fordismo nel modello di produzione, il berlusconismo è una composizione di ceti “marginali” (casalinghe, pensionati, disoccupati) e ceti produttivi (il cosiddetto popolo delle partite iva). Finora gli studi su questo fenomeno si sono concentrati più sul “personaggio” politico, anziché sui ceti sociali che l’hanno rafforzato e sostenuto negli ultimi quindici anni. Il fenomeno, a mio parere, ancora non viene studiato sul serio. Forse perché si è troppo coinvolti per avere quel giusto distacco per analizzarlo con la dovuta perizia. Allora ci si perde nei dettagli, e non si guarda alla sostanza delle cose. Mi sembra che tutte le riflessioni che si hanno sul fenomeno siano focalizzate soprattutto sui meccanismi che spiegano il suo consenso, trascurando le reali forze che lo hanno di fatto realizzato. In un altro saggio (Il consumo come veicolo di consenso) ho cercato di mettere in evidenza quale fosse la chiave del successo della proposta berlusconiana. In un paese in cui la domanda di consumo è radicalmente cambiata e trasformata, mi sembrava evidente che a questa domanda fosse più capace di rispondere (non di dico di soddisfare) uno stile di vita consumistico, così come veniva profilandosi nella ideologia berlusconiana, anziché una qualsiasi altra proposta politica. Anzitutto, perché senza dubbio riusciva a incarnarla e ad esprimerla meglio rispetto ad ogni altra. E poi perché era più organica allo stile di vita delle tv commerciali. Proprio in ragione di questa ideologia si giustifica e si legittima la crepa sociale che divide il tessuto sociale tra i grandi detentori di ricchezza e il resto del paese. Il berlusconismo come “rivoluzione passiva” ha tentato, e finora bisogna dire che c’è anche riuscito, a saldare e a tenere insieme il forte divario sociale che si è creato nel paese tra i grandi detentori di ricchezza e i ceti più poveri ed emarginati. Questa saldatura non è dovuta, come talvolta si crede, al “miraggio di ricchezza” che il berlusconismo ha saputo suscitare, in alcune fasi della sua storia, ma al “miraggio di ’immobilismo” che ha saputo realmente concretizzare, a quella nuova forma di gattopardismo, insito in ogni italiano, di credere che affinché tutto cambi, nulla deve cambiare. Ora però che questo immobilismo sociale sta producendo i suoi effetti negativi, da più parti si prende consapevolezza dei danni sociali che il berlusconismo ha prodotto nel paese.


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