Un luogo comune ripetuto a tal punto da diventare verità indiscutibile porta a farci vedere nel pensiero di Antonio Gramsci un vuoto clamoroso per un intellettuale marxista, ovvero la mancanza di un’analisi sistematica dell’aspetto economico nel processo rivoluzionario. Ovviamente una simile rappresentazione non rende per nulla giustizia al pensatore di Ales, tanto da costringerci a rivedere in maniera critica questo aspetto, prima di tutto per correttezza, ma soprattutto per motivi strettamente connessi alla realtà attuale.
A dir la verità non è neppure tanto difficile ritrovare in Gramsci un interesse sistematico all’aspetto economico; per rendersene conto basta leggere uno dei suoi scritti più famosi, ovvero “Per una preparazione ideologica di massa”, del 1925:
Noi sappiamo che la lotta del proletariato contro il capitalismo si svolge su tre fronti: quello economico, quello politico, e quello ideologico. La lotta economica ha tre fasi: di resistenza contro il capitalismo, cioè la fase sindacale elementare; di offensiva contro il capitalismo per il controllo operaio sulla produzione; lotta per l’eliminazione del capitalismo attraverso la socializzazione. Anche la lotta politica ha tre fasi principali: lotta per infrenare il potere della borghesia nello Stato parlamentare, cioè per mantenere o creare una situazione democratica in equilibrio tra le classi che permetta al proletariato di organizzarsi; lotta per la conquista del potere e per la creazione dello Stato operaio, cioè un’azione politica complessa attraverso la quale il proletariato mobilita intorno a sé tutte le forze sociali anticapitalistiche (in prima linea la classe contadina) e le conduce alla vittoria; fase della dittatura del proletariato organizzato in classe dominante per eliminare tutti gli ostacoli tecnici e sociali, che si frappongono alla realizzazione del comunismo. La lotta economica non può essere disgiunta dalla lotta politica, e né l’una né l’altra cosa possono essere disgiunte dalla lotta ideologica.
Insomma, non solo Gramsci si interessa al fronte economico, ma lo configura come aspetto fondamentale del processo rivoluzionario, condizione sine qua non nel percorso che vede la distruzione del capitalismo. Senza una fase pre-rivoluzionaria di organizzazione sindacale spontanea, non può esservi controllo della produzione; senza controllo della produzione non può esservi eliminazione del capitalismo.
Ancora, nelle “Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno”, Gramsci scrive:
La politica è azione permanente e dà nascita a organizzazioni permanenti in quanto appunto si identifica con l’economia. Ma essa anche se ne distingue e perciò può parlarsi separatamente di economia e di politica e può parlarsi di «passione politica» come di impulso immediato all’azione che nasce sul terreno «permanente e organico» della vita economica, ma lo supera, facendo entrare in gioco sentimenti e aspirazioni nella cui atmosfera incandescente lo stesso calcolo della vita umana individuale ubbidisce a leggi diverse da quelle del tornaconto individuale ecc.
Quest’ultimo estratto ci chiarisce come, giustamente, la politica debba essere egemonica rispetto l’economia, in virtù di una passione, di un impulso che il mero lato economico non può giocoforza suscitare. Ciò, tuttavia, non toglie nulla all’identificazione fra economia e politica tracciata da Gramsci, come, in maniera diversa, da tanti altri pensatori marxisti (ad esempio, con toni diversi, da Che Guevara).
Ragionare ancora di Gramsci e con Gramsci non solo ha ancora senso, ma è assolutamente necessario per capire e soprattutto per rivoluzionare il sistema attuale. Naturalmente non mi auguro che si prenda tout court l’analisi e la prassi gramsciana, ma allo stesso tempo ricuso lo sconvolgimento e la mistificazione di un pensiero che ha ancora una grande attualità rivoluzionaria. La società post-industriale impone sicuramente un aggiornamento del pensiero rivoluzionario, un abbandono di schemi culturali e politici che avevano ampiamente funzionato nello scorso secolo: difficilissimo sarebbe oggi realizzare quanto si augurava Gramsci sul fronte politico, ovvero la creazione di un equilibrio fra le classi, la conquista del potere e la conseguente dittatura del proletariato; la storia e gli sconvolgimenti socio-economici e culturali ci insegnano che ciò non è più possibile. Eppure, se da un lato diventa difficile contestualizzare nella società contemporanea le tre fasi della lotta politica citate sopra, non si può dire lo stesso per quanto riguarda le fasi della lotta economica.
Con buona approssimazione, riaggiornando i concetti di classe alla luce della distribuzione attuale del reddito e introducendo elementi nuovi nella teoria economica, possiamo ben rileggere nell’analisi di Gramsci uno specchio dei rivolgimenti attuali. È chiaro come in questo momento storico, la resistenza pre-rivoluzionaria, quella prima fondamentale fase sindacale elementare sia ancora attestata su livelli pre-politici, a malapena spontanei, ancora lontani dalla creazione di una coscienza collettiva e di una dialettica rivoluzionaria. Sostenere il contrario sarebbe solamente una pia illusione; è proprio da ciò, tuttavia, che dobbiamo ripartire, dalla costruzione di un percorso rivoluzionario che possa portare da qui a breve all’offensiva per il controllo delle nostre risorse, dei mezzi della produzione (produzione di merce in senso lato, non solo di oggetti fisici) e di vera redistribuzione del reddito.
Per farlo, tuttavia, dobbiamo semplicemente invertire rotta, spostare la discussione verso il discorso economico di riappropriazione e redistribuzione. In altro modo, di distruzione del capitalismo.
Fonte: http://www.inintellettuale.it/