Da anni mi occupo del pensiero gramsciano. Ho scritto la mia tesi di laurea sugli scritti giovanili di Gramsci. Ho imparato nel tempo a dialogare con questo pensiero, soprattutto perché questo pensiero mi ha insegnato a dialogare, a prestare attenzione all’altrui punto di vista, alle sue ragioni come ai suoi torti.
Attraverso la recensione di un libro di Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre, ho “scoperto” un Gramsci inedito, una sorta di teorico della macchina del fango ante litteram. Mi mancava questo Gramsci anticipatore del “metodo Boffo”. Scopro che Gramsci praticava e teorizzava una sorta di “pedagogia dell’intolleranza e della violenta”, diretta ad annientare fisicamente e spiritualmente il proprio avversario di classe. Già, lui che è finito per essere stroncato fisicamente in galera dai suoi nemici di classe. Se avessi qualche soldo, questo libro lo comprerei e lo leggerei con gusto, perché Gramsci mi ha insegnato ad essere curioso di ogni cosa. Se sono un buon lettore critico lo devo soprattutto a Gramsci, perché da lui ho ereditato la curiosità verso tutto ciò che muove nell’ambito del pensiero, anche verso questo genere di libri che aiutano molto alla carriera di chi li scrive, ma poco all’intelligenza dell’autore trattato.
Che nei suoi anni giovanili, quando la piccola-borghesia alleata con il grande capitale, e con la complicità degli apparati dello Stato, si stava accingendo a prendere il potere in Italia, quando alcuni socialisti promuovevano un patto di pacificazione con il governo fascista, Gramsci abbia mostrato qualche intemperanza verbale, calcata la penna dipingendo a tinte fosche alcuni tratti di uomini politici che stavano cedendo armi e bagagli al nemico, credo che non sia affatto una scoperta eclatante, tal da far gridare a questo corifeo della democrazia nostrana allo scandalo dell’intolleranza. Per Gramsci, gli articoli di giornali “dovevano morire alla giornata”, esseri spesi nella lotta politica contingente. A fronte, dunque, di qualche intemperanza polemica, si potrebbero citare pagine e pagine in cui Gramsci invita i compagni di lotta a studiare l’avversario, a non sottovalutarlo, a non cedere al verbalismo sterile e gratuito, a non limitarsi a insultarlo, a non scimmiottare il rivoluzionario parolaio…
Immaginiamoci una classe, la grande borghesia industriale e agraria, che alleata con la piccola borghesia, l’esercito e gli altri apparati di repressione, stia per accingersi a fare un colpo di Stato, a instaurare una dittatura. Immaginiamo dall’altra parte che ci sia un ceto politico, che si dichiara riformista, democratico, tollerante, e che stia per scendere a patti o che stia cercando di fare dei compromessi con quei gruppi di potere. Immaginiamoci che ci sia un gruppo minoritario che si oppone agli uni e agli altri, e usa tutti i mezzi che ha a disposizione per impedire sia l’instaurazione della dittatura che l’alleanza tra quei gruppi e l’ala riformista. Se riusciamo a immaginare tutto questo, riusciremo a comprendere le ragioni degli uni e degli altri. Se invece immaginiamo che tutto ciò si sia svolto in una pacifica arena accademica, siamo allora fuori luogo. La tendenza attuale è quella di valutare tutto con gli occhi del presente. Tra il passato e il presente è stata eliminata la distanza storico-temporale. Ognuno vorrebbe vedere il proprio presente come figlio del passato, in realtà si trasforma il passato in figlio del presente. Se si elimina il particolare contesto storico, ai testi possiamo far dire ciò che vogliamo. Li possiamo sollecitare nella direzione a noi più congeniale.
Che Gramsci fosse un rivoluzionario, non c’è dubbio. Che Gramsci volesse “tradurre” nella realtà italiana il pensiero politico di Lenin, non c’è dubbio. Che l’azione politica e teorica di Gramsci puntasse alla “dittatura del proletario”, non c’è dubbio. Come non c’è dubbio che abbia pagato con il carcere e la morte la sua militanza politica, mentre tanti liberali e tanti democratici facevano a gara per andare in soccorso del vincitore. Scoprire oggi tutto questo vuol dire non aver mai letto una sola pagina o un suo solo articolo. Il rilievo che faccio è se questa riflessione, che ha rappresentato uno dei momenti più alti nella storia culturale italiana del secolo scorso, possa essere ridotta sotto l’etichetta “pedagogia dell’intolleranza e della violenza”. “Bisogna cavar sangue anche da una rapa”, scriveva in carcere Gramsci, ossia bisogna dare importanza anche al più insignificante pensiero, o al più insignificante prodotto culturale.
A leggere questo libro di Orsini, un po’ di sangue magari c’è. Nel senso che esso ci parla più dei nostri tempi che non di Gramsci, ci insegna, cioè, a conoscere meglio questi tempi che non quelli in cui Gramsci è vissuto e ha operato. Ci insegna ad esempio come trasformare un pensiero complesso e profondo, come quello gramsciano, in una marionetta della storia, una marionetta che si agita contro i fantasmi postumi della storia. Ci insegna, ad esempio, come possiamo porre tutto sull’asse dell’attualità, e gettare nell’agone politico storie e figure piegandole ai propri fini e consumi. Ci insegna come si può fare carriera andando a scovare nel passato gli acerrimi nemici della democrazia (democrazia comunque posta nel mondo eburneo dello spirito). Ci insegna a capire come si può narrare oggi la storia semplificando il contesto storico, riducendo le passioni, le correnti vive e forti della storia a semplici scaramucce tra schermitori di fioretto.