Magazine Cinema
Grand Budapest Hotel di Wes Anderson con Ralph Fiennes, Saoirse Ronan, William Defoe, Adrian Brody, Tilda Swinton Usa, 2014 genere, commedia durata, 100'
Raccontare una storia presuppone qualcuno disposto ad ascoltarla. Per questo motivo il narratore deve tenere in gran cura due cose: la prima centra con l'affabulazione, e consegue dalla necessità di mantenere il pubblico in quello stato di sospensione in cui si inserisce la seconda, che invece appartiene all'immaginazione, e comprende tutto quegli espendienti, naturali ed artificiali, al quale l'oratore si rifà per dare vita al mondo che sta descrivendo. Se così è, non c'è dubbio sul fatto che Wes Anderson, regista e sceneggiatore di film, sia un grande storyteller In "Grand Budapest Hotel" queste caratteristiche, che rappresentano allo stesso tempo il pregio ed il limite dell'opera, sono incise nel tessuto stesso delle immagini, suddivise per capitoli che prendono forma dal libro immaginario di cui il film si serve per raccontare la sua storia. Pagine di cinema che vivono inseguendo una dimensione esistenziale votata ad una fanciullezza avventurosa e immaginifica, che trasfigura il reale nelle forme di un dadaismo cinematografico di cui abbiamo imparato a conoscere luoghi e situazioni. Come accade all'hotel del titolo, protagonista alla pari della nave di "Zizou" e della villa de "I Tennebaum", per il fatto di funzionare come elemento propulsore di un immaginario fatto di uomini e di accessori, accostati gli uni agli altri dalla corrispondenza dei colori e dalla stilizzazione delle figure. E dove anche questa volta a sbrogliare una matassa che assomiglia ad un giallo di Agatha Christie sono due protagonisti - Gustave H addetto alla reception di un hotel da mille e una notte, e Zero Moustafa, fattorino nella stessa struttura- che simulando un rapporto tra padre e figlio ripropongono uno dei cardini della poetica Andersoniana, geneticamente rivolta a compensare le disfunzioni provocate da figure paterne, biologiche e putative poco importa, segnate da inevitabile infantilismo.
Una letteratura che Anderson inserisce in un contesto favoloso, rappresentato da una terra di mezzo che fa verso a quella società mitteleuropea attraversata dalle ansie e dalle contraddizioni di un grande cambiamento epocale - siamo alla vigilia del secondo conflitto mondiale e su Zubroska si addensano i fantasmi di eserciti in armi - e messa a rischio da un egoismo umano che è lo specchio di quello dei nostri giorni. In questo modo a farla da padrone in termini di trama sono le schermaglie di un complotto che vede i nostri eroi impegnati a salvare pelle e bottino (un quadro di incalcolabile valore) dalle minacce di una fauna di improbabili lestofanti, da cui dipendono le sorti di un mondo in via di sparizione. I viaggi non si contano così come gli andirivieni di tipi umani, tanti quanti sono gli attori che servono ad Anderson per rendere al meglio la sensazione di famiglia allargata che non distingue tra buoni e cattivi ma si ciba di un divertimento comune e fuori dagli schemi. L’impatto è spettacolare, ma con il passare del tempo il film perde consistenza accontentandosi di un accumulo visivo che stupisce ma non scalda il cuore. Le caratterizzazioni sono strepitose ma senza respiro, destinate a lasciare il passo all’ebrezza del regista bambino, divertito dalle infinite varianti di un meccanismo narrativo che torna prepotente in gioco nell’ultima sequenza quando il dettaglio sul libro che si chiude interrompendo la visione, ci ricorda l’importanza del lettore/spettatore, utilizzatore finale ed anello indispensabile al senso stesso dell'operta d'arte.
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