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Ci sono registi che si riconoscono anche solo da un'inquadratura.
Prendi questa: divisione geometrica dello spazio, tanto che senti che la macchina da presa o se ne starà ferma immobile in quel punto o sarà pronta a scattare su un carrello, colori pastello e soprattutto tanto tanto stile.
Se non avete saputo dire che l'inquadratura in questione è di Wes Anderson, probabilmente non avete visto i suoi film, che sono un puro concentrato del suo tocco personale, ordinato e spumeggiante davvero diverso da chiunque in circolazione.
E se essersi stabilizzato su questo determinato modo di fare cinema per qualcun altro potrebbe essere un difetto, una ripetizione incessante degli stessi mezzi, questo non è per Wes.
Perchè anche con la musica uno può fare sempre le stesse cose, usare sempre gli stessi ingredienti all'interno delle canzoni e venire presto a noia (vedi una certa Lady Gaga che ormai si ripete e si copia da sé), ma se gli ingredienti che hai sono quelli giusti, e se soprattutto trovi sempre qualcosa di nuovo da dire -una storia unica da raccontare- allora la tua ricetta è giusta, e il fatto di essere riconosciuto anche solo da un'inquadratura diventa il tuo miglior pregio.
Dopo averci raccontata di una tenera e folle fuga d'amore in Moonrise Kingdom, Anderson torna con una trama fatta a scatole cinesi, o a matrioske, che si apre e si richiude su se stessa riuscendo così a coprire 80 anni di storia nell'immaginaria Zubrowka.
Ai giorni nostri, una ragazza appende delle chiavi al monumento di un autore e inizia a leggerne il libro.
Nel 1968 l'autore inizia a raccontarci la sua storia, del suo incontro nell'ormai decaduto Budapest Hotel con il suo solitario ed enigmatico proprietario, il milionario Zero, che gli concede una cena dove svelargli come è entrato in possesso della sua fortuna e dell'hotel stesso.
Nel 1932 seguiamo come Zero è entrato nell'hotel come semplice Lobby Boy, aiuto fidato del concierge Gustave, e di come lo ha aiutato a tirarsi fuori dai guai dopo che questi è diventato erede di un prestigioso dipinto, lasciatogli in eredità da una delle sue tante anziani amanti, con la famiglia di lei pronta a dargli la caccia e a incastrarlo.
Quest'ultimo episodio, diventerà così il centro stesso del film, con la vicenda che si snoda tra fughe improbabili, amori appena sbocciati, omicidi a sangue freddo, una guerra in corso e una risoluzione tempestiva che tutto sistema.
Come sempre, lo stile di Anderson non ha eguali, e nel rappresentare la Mitteleuropa degli anni '30 si lascia andare ai suoi amati colori pastello, ad una scenografia volutamente pittorica e soprattutto al suo marchio di fabbrica: quella costruzione delle inquadrature che non lascia spazio a sbavature o a elementi che ne disturbino la geometria.
Il cast si muove in tutto questo con la frizzantezza e l'originalità richiesta dai propri personaggi, e così Jude Law infila l'ennesimo ruolo azzeccato della sua carriera, Ralph Fiennes torna in forma smagliante mentre Bill Murray, Edward Norton, F. Murray Abraham, Harvey Keitel, Tilda Swinton, Jason Schwartzman, Willem Dafoe, Owen Wilson e Adrien Brody (!!!) si concedono in divertenti e riusciti camei. Ma il vero protagonista è lui, Tony Revolori, qui al suo splendido esordio, che conquista con la sua aria imbambolata e ingenua.
Grand Budapest Hotel manca forse del sentimento presente in Moonrise Kingdom, vero, ma acquista la struttura organizzata di Fantastic Mr. Fox immettendola in un mondo altrettanto stralunato che solo un regista come Anderson sa gestire e portare alla ribalta.
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