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Grandi buffoni, però la Callas me lo fa venire duro – racconto di Iannozzi Giuseppe

Creato il 02 ottobre 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Grandi buffoni, però la Callas me lo fa venire duro – racconto di Iannozzi GiuseppeGrandi buffoni, però la Callas
me lo fa venire duro

di Iannozzi Giuseppe – da Premio Strega

“C’è una cosa che a me mi piace tanto: che i miei detrattori non possono davvero far a meno di parlare sempre e solo di me nel bene e nel male. Assomigliano a certi avvinazzati che senza il rosso nel bicchiere non hanno né voce né spirito. Alfine stanchi, non più buoni neanche a barcollare, abbracciati a lampioni rotti o riversi dentro cassonetti tracimanti immonda sporcizia, prendono sonno; e par quasi cadano in un sonno sì profondo che più non debbano vedere il dì appresso.”
Distrattamente Riccardo m’indica Piazza San Carlo, già sepolta dentro a un crepuscolo sanguigno. Riccardo non è giovane, non è vecchio. E’. Consapevole di essere e basta, esso si trascina lungo le strade di Torino, senza voglia alcuna, più per abitudine che per altro, come un drogato che a tutti lascia credere d’esser guarito, però costretto ogni giorno alla sua dose di metadone.
“E’ tardi.”
“No. E’ solo che fa buio prima.”
Continuiamo a camminare sotto i portici tenendo un passo lento, fingendo in cuor nostro di seguire le invisibili orme di Pavese.
“Che ne dici di un caffè?”
Non gli rispondo. Entriamo in un bar, uno dei tanti e con sicumera ci accomodiamo a un tavolino aspettando che il cameriere venga a prendere l’ordinazione o a rimproverarci per non aver aspettato. Un pinguino vestito di bianco arriva subìto sotto il nostro naso: allarga il suo sorriso più smagliante, ci chiama Signori, ci chiede in che cosa può esserci utile. Riccardo si liscia il pomo d’Adamo con le dita sporche di nicotina, poi con voce leziosa ordina per entrambi.

Due birre e un piatto di stuzzichini vennero deposti sotto i nostri occhi. Riccardo, senza batter ciglio, allungò una fin troppa generosa mancia al cameriere e neanche badò a quanto fosse salato il conto. Pagò e basta.
“E’ tutto così banale oggi!”
“Solo oggi?”
“Sempre.”
“E ti dà fastidio…?”
“Certo che sì. La banalità è un cappio, una cravatta fuori moda che tutti insistono ad annodarsi al collo ogni santo mattino. Terribile!”
“Non potresti essere più preciso, Ric?”
Riccardo si lisciò i lunghi capelli, solo leggermente brizzolati sulle tempie, poi con fare affettato, muovendo le mani come farfalle sotto la minaccia d’un incendio, prese a parlare a tutta birra, per esprimere infine l’idea – in verità assai poco originale – che l’arte oggidì manca di motivazioni e che solo si crea per lasciar liberi gas intestinali: “Non ti sei forse accorto che il male più grande sono tutte quelle pance gonfie? Sono tutti obesi, anche i poveri in carne: obesi di gas, dalla vita in giù. Degli esseri stomachevoli. Basterebbe un niente, un pugno o un calcio, per sbatterli a terra e lì lasciarli inutili a sé stessi, incapaci a rialzarsi.”
“Semplicemente non si può chiudere a un buffone di essere diverso da quel che è.”
“O quanto hai ragione! Un buffone ha per tutte le occasioni sempre il solito vecchio cerone, poco gl’importa che si trovi di fronte a corpi straziati o in chiesa tra baciapile azzimati.”
“E’ la Decadenza.”
“Ahimè, so bene di che parli. Pure io che fino a qualche hanno or sono potevo vantarmi d’essere il più dannunziano degli uomini, oggi sono sol più l’ombra di me stesso. Mi trascino, l’hai visto anche tu. Se tutto d’attorno è preso dalla decadenza anche il più duro virgulto alla fine s’ammala.”
“Non essere drammatico, Ric. Tu non sei sottoterra come certuni.”
“Manca poco, mio buon vecchio amico. Un giorno ti sveglierai, mi guarderai bene in faccia e capirai che del Ric che conoscesti non c’è più una sola virgola. Pensare che ero così ben piantato, inflessibile punto fermo, mentr’oggi sono qui…” E così dicendo buttò nel gargarozzo un ben più che generoso sorso di birra. “Gli unici comunisti buoni sono quelli ricchi o sulla via dell’arricchimento. Tutti gli altri sono imprenditori, un’abiezione… o meglio una mutazione… Pensare che solo ieri erano chiamati dal volgo capitalisti! Già, una orribile mutazione. Né ai comunisti né agli imprenditori interessa l’Arte. E per Arte, amico mio, intendo qualcosa di divino, non un thriller in economica. Ma come ben sappiamo, oggi tutti promuovono lo stesso vile prodotto che dura il tempo d’una stagione e nemmeno. Chiunque oggi osasse portare dell’Arte vera sarebbe prima dileggiato, poi costretto a profondersi in scuse o finirebbe dritto sul rogo della censura.”
“Adesso stai diventando melodrammatico…”, lo rimproverai benevolmente e però con lui d’accordo, pur non osando di dirglielo in faccia che sì non si sbagliava d’una virgola. Ma il mio volto cinereo diceva più d’un milione di parole e Riccardo guatandomi con quei suoi occhi neri d’oblio sapeva.
“Ascolta Verdi, ascolta le parole di Maria Piave… la donna è mobile…”
Passava proprio Verdi in filodiffusione: la voce, quella di Big Luciano.
“E’ una bella aria.”
“Oh sì. Ma tu sai che i detrattori di Verdi hanno sempre da dire. Non capivano nell’Ottocento e non capiscono oggi.”
“Ric, perché dare tutta questa importanza all’Arte? La gente muore per mille motivi diversi: di fame di guerra di malattie. E noi qui a cianciare di questo e quello, d’argomenti invero futili di fronte a una vita spezzata. Se oggi l’arte non ha prezzo perché fatta di nulla, domani forse sarà meglio o peggio. Ma chi oggi muore domani non risorgerà. E allora perché affannarsi per qualche cosa come l’arte e il mercato che è diventata per via degli uomini, perché perder tempo dietro a quei buffoni che si credono del mondo i padroni?”
“Perché e perché… Mon Dieu! E’ così ovvio. L’Arte consola.”
“Consola solo chi se la può permettere. Tu ed io, ad esempio, non di certo quello lì che non degnasti nemmeno d’uno sguardo e che eppur esiste e all’addiaccio sta raccolto nel suo cartone. Ti basterebbe metter fuori il naso per vederlo se solo volessi. Dimmi, a lui come può consolarlo l’arte, che cosa gli potrebbe mai dare? Forse un letto e un tetto, per una notte almeno? No. Ed allora, Ric, non mi parlare di consolazione.”
“Forse hai ragione. Però non mi spiego perché tu che sei invischiato, bene o male, nel linguaggio artistico, se di te dicono male te la prendi e non molli l’avversario sin tanto che non l’hai spolpato. Non mi sembra tu sia migliore di me. Anzi!”
Ingoiai a malincuore l’ultima sorso di birra, e con la bocca impastata cercai una spiegazione che non suonasse troppo ipocrita da dare in pasto a Riccardo. Schioccai più volte la lingua contro il palato. Alla fine cedetti e il silenzio cadde su di noi, un’accusa insostenibile e che noi davvero non potevamo stornare così su due piedi. Riccardo aveva detto il vero: io non ero meglio di… Di chi, per Dio?

* * *

Uscimmo dal bar ch’era già notte fonda: il crepuscolo aveva ceduto il posto al buio, un buio talmente fitto che con un coltello lo si sarebbe potuto tagliare, o perlomeno ferire a morte.
Torino era al buio. Anche Piazza Castello. Pareva quasi che ogni anima fosse stata costretta all’Oblio più totale e assoluto e che io e Riccardo fossimo gli unici sopravvissuti. “Manca una qualsivoglia speranza di cambiamento; la sinistra dovrebbe darla, e spesso non la dà; la destra non la dà, ma in compenso vende sogni; soprattutto il sogno di essere amici dei forti e dei potenti…”, sbottò Riccardo; ma era innocuo quasi quanto quell’uomo che quattrocento e rotti anni fa uscì dal tribunale dell’Inquisizione col capo chino mormorando ‘eppur si move’.
“Stai forse insinuando che…”
“Non insinuo proprio niente. Io poi? Proprio io che sono così pieno di soldi da fare schifo? Io che con tutto quello che ho non riesco a comprarmi un fazzoletto di felicità? Mantieni la calma, hai solo da guadagnarci.”
“E’ un’idea stantia il sogno di essere amici dei forti e dei potenti. Decisamente fuori moda. E poi, è un po’ tanto difficile che con il quarantasei che calzo io possa trovare una scarpina, per giunta di cristallo, che mi stia bene e convolare così a nozze con il potente di turno. E per nostra somma fortuna la più parte degli italiani sono dei piedoni, che di muliebre hanno ben poco, donne comprese.”

Grandi buffoni, però la Callas me lo fa venire duro – racconto di Iannozzi Giuseppe
“E lucevan le stelle/ ed olezzava la terra/ stridea l’uscio dell’orto/ e un passo sfiorava la rena./ Entrava ella, fragrante,/ mi cadea fra le braccia./ Oh! dolce baci, o languide carezze,/ mentr’io fremente/ le belle forme disciogliea dai veli!/ Svanì per sempre il sogno mio d’amore/ L’ora e fuggita/ e muoio disperato!/ E non ho amato mai tanto la vita!/ tanto la vita!”*, cantò Riccardo squarciando l’aria. E subito ch’ebbe finito di cantare scoppiò in una risata grottesca. “Andiamo, andiamo a casa… siamo dei buffoni sulle spalle di nani assassini!”
“E questo che vorrebbe significare?”
“Niente, niente, per la madonna! Però a me la Callas lo fa venire duro…” E riprese a ridere, isterico e soffocato, mentre attraversavamo Piazza Castello tagliandola coi nostri passi, gli unici rumori che si sentissero nella notte profonda insieme allo zampillio delle fontane.

* Cavaradossi, E lucevan le stelle, atto III, Tosca, Giacomo Puccini, libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
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