mercoledì 28 novembre 2012 di L'Abattoir
di Giulio Macaluso
Il mese scorso abbiamo assistito, impotenti e un po’ interdetti, all’ennesima protesta degli operai GESIP. Da anni tutti gli operai dei vari carrozzoni regionali, provinciali, comunali, periodicamente scendono in piazza a reclamare i loro diritti, quindi forse ci si stupisce per una non notizia. Nessuno, nella baraonda degli eventi, li ha mai richiamati ai loro doveri, ma questo forse è un discorso troppo astruso per la Sicilia dei nostri tempi. Come chiedere di produrre ad una azienda quando la quasi totalità dei dipendenti è “amico di” o “figlioccio di” o “scagnozzo di” o “raccogli voti di”. Tra amici, figliocci, scagnozzi e raccoglitori di voti sicuramente si riesce a far scendere in terra tutti i santi patroni in giunta, consiglio provinciale e regionale degli ultimi vent’anni. Una schiera di santi bi-partisan, a ben vedere. Dovremmo quindi ogni tanto ringraziare tutto il parterre politico, in primis il sindaco che anni fa creò il carrozzone GESIP, per i danni economici e materiali.
Ma c’è un aspetto non secondario, prettamente applicabile a questa vertenza, che non emerge mai. Mentre giovani e meno giovani laureati o specializzati in tutto il Paese devono, da un lato, per forza di cose, adattarsi all’assenza di un posto fisso, alla disoccupazione quando va male, spesso e volentieri al demansionamento o al sottopagamento, e non esiste via di fuga alla scadenza di un contratto, dall’altro, un presunto operaio (per me la parola operaio è una grande parola che indica un lavoratore che sia tale) di questi consorzi, o aziende che dir si voglia, pretende non solo un posto fisso ma per giunta statale. E lo pretende perché lo Stato deve avere “un cuore”. Questo, oltre che essere incredibilmente farsesco, è anacronistico e impraticabile (anche se per vie traverse si pratica eccome in tutto il meridione).
Dove sta scritto che lo Stato deve dare un posto di lavoro a chiunque ne faccia richiesta in quanto bisognoso? Se esiste un testo del genere, com’è che il giovane laureato o specializzato disoccupato non lo conosce e non vi si appella? (componente farsesca). Non sarà che tramite l’assegnazione di un lavoro generico di operaio si richiede un sussidio, un obolo alla classe regnante come succedeva nella Roma imperiale e più volte nella storia finanche alla Palermo spagnola e francese, in cambio della sudditanza e dell’appoggio nel momento apicale della vita politica cioè il periodo elettorale? Panem et circenses, il panuzzo condito da uno pseudo-lavoro pubblico e gli show in piazza con musica napoletana, un connubio perfetto. (componente anacronistica).
Ma è possibile dilapidare il patrimonio pubblico per campare chi non fa nulla? Con i recenti meccanismi economici di controllo del bilancio, mantenere voci in uscita obsolete sembrerebbe sempre più difficile. Ma non impossibile per i nostri eroi. Finora è stato fatto con deroghe specifiche (e chissà fin quando ne vedremo) e ad esempio, guarda caso, si fa puntualmente e platealmente ad ogni vertenza GESIP con scopi di ordine pubblico (!), alimentando un circolo vizioso per cui chi più fa danno più riceve. Incredibile.
Altro discorso meritano gli operai “veri” delle miniere del Sulcis. In questo caso ci troviamo di fronte a personale altamente qualificato e formato nel settore estrattivo che però ha la sfortuna di trovarsi nel Paese sbagliato nel mezzo del fenomeno mondiale sbagliato (globalizzazione).
Così come la FIAT di Termini era improduttiva perché i costi di gestione e trasporto non permettevano di essere competitivi sul mercato (e le perdite erano a carico dello Stato per la cronaca), allo stesso modo estrarre o lavorare i minerali sull’isola di Sardegna oggi non è più conveniente. E non è che ALCOA e FIAT se ne sono accorti oggi. Finora hanno mantenuto in vita gli stabilimenti dietro pesanti sovvenzionamenti statali. Hanno lucrato sulla necessità dello Stato di mantenere un polo industriale in un contesto difficile. Siamo noi cittadini con le tasse ad aver tenuto in vita condizioni anomali nel mercato del lavoro, il tutto perché il lavoro è sacro, sì, ma deve essere anche produttivo, ci siamo dimenticati. Mantenere in piedi una fabbrica senza che produca utile a chi giova? Solo a coloro che prendono il salario. E il resto della comunità?
Il ruolo dello Stato non può e non deve essere quello di versare soldi pubblici in un calderone affinchè pesci grandi e piccoli mangino e prosperino in condizioni paradossali. Questo si chiama assistenzialismo (per di più disarmonico in quanto lascia briciole ed oboli agli ultimi della catena mentre politici corrotti e mafiosi sbranano il grosso del capitale) e se si stabilisce che deve essere praticato, almeno che si tolga il velo di ipocrisia su di esso e si introduca, in modo da trattare pariteticamente chi è fuori e chi campa con difficoltà dentro il mondo del lavoro, un reddito minimo garantito per tutti.
In uno Stato che si rispetti, in ogni caso, si fa politica industriale. Ogni Stato membro dell’UE fa la sua e tira acqua al suo mulino cercando di rispettare le direttive europee. In Italia, tanto per cambiare, abbiamo demandato totalmente questa “bazzecola” all’Europa. Mentre la classe politica divora il Paese, il destino del tessuto produttivo nazionale naviga su una zattera circondata da squali. Tra le altre cose, l’UE ci suggerisce sempre di sollecitare l’adattamento dell’industria ai mutamenti strutturali e di attuare una politica di formazione professionale. Sono due cose che vanno di pari passo inevitabilmente. È lampante, ribadisco, l’obsolescenza di una miniera di carbone ormai isolata e decontestualizzata. In altri Paesi se ne sarebbero accorti per tempo, e per tempo avrebbero proceduto a programmare una riconversione sia dello stabilimento sia del personale impiegato.
Ingenuamente, all’esplosione della crisi dell’ALCOA, ho pensato a chissà quanti petulanti rappresentanti delle istituzioni (una volta tutti i partiti di sinistra sostenevano istanze di operai e affini, oggi qualcuno a parole pare ancora occuparsene ma sono echi di tempi lontani) si erano spesi per preparare al futuro l’azienda.
Ovviamente era l’ottimismo di uno smemorato. Nessuno tra i tanti, pubblicamente, è andato oltre la banalità de “il lavoro è un diritto”, “bisogna salvare l’occupazione”, “lo Stato deve convincere l’azienda a non chiedere” e bla-bla-bla (banalità di banalità). Questo disco è il preferito tra i superficiali governanti, evidentemente, perché le insulsaggini si sono sprecate senza soluzione di continuità.
Altra piccola incongruenza: si chiede la non-chiusura di uno stabilimento che produce carbone (combustibile altamente inquinante) in nome del diritto al lavoro. Ma per chi dovrebbe produrre carbone l’ALCOA se non per il mercato interno rappresentato proprio dalle centrali elettriche a carbone dell’ENEL? E il diritto alla salute? Pare passi in secondo piano al cospetto del diritto al lavoro. Ma può un cittadino essere costretto a scegliere tra vivere nel rischio e vivere nella disperazione?
Come ad esempio per la vertenza ILVA. Per tanti anni una gestione delinquenziale dei proprietari (come è possibile che solo pochi hanno il coraggio di raccontare questa verità?) è rimasta impunita per un corto circuito terrificante tra lavoro, malapolitica e imprenditoria.
L’imprenditore deve adeguare l’industria alle norme vigenti, lo Stato deve controllare che ciò venga fatto. Questa è la prassi. Invece all’ILVA, l’imprenditore non ha fatto il suo dovere preferendo “omaggiare” i potentati locali e tutti gli amministratori, i quali avendo anche paura delle conseguenze di uno stop sul loro elettorato, si sono adoperati sempre per evitarlo, non imponendo il rinnovo e l’aggiornamento dello stabilimento ma coprendo il marcio e imbrigliando i controlli. Difficile per me dire chi sia più criminale tra proprietari e controllori.
Gli unici che hanno fatto il loro lavoro, infine, sono stati i giudici che hanno disposto il sequestro e paradossalmente sono stati bersagliati dai controllori che invece non hanno fatto niente! (E niente, mi preme dirlo, continueranno a fare).
Quando si dice guardare (colpevolmente) al dito che indica e non alla luna…
Molti sostengono che queste aziende (FIAT, ALCOA, ILVA) siano debitrici verso lo Stato dopo i già ribaditi anni di sovvenzionamenti e aiuti vari e quindi che non possano chiudere. Questa posizione tuttavia è bizzarra dal momento che le aziende hanno approfittato della necessità dello Stato di mantenere il lavoro in aree industrialmente desertiche, creando cattedrali per cui la legge di mercato non è esistita mai. Indubbiamente doveva essere lo Stato a comportarsi diversamente e in ogni caso augurarsi che queste situazioni permangano è angosciante. Buono è viceversa che man mano si chiuda il rubinetto e si progetti un’altra via per creare posti di lavoro (magari più eco-compatibile).
Ma i politici hanno paura di tutta la gente che chiede di trovare una via futuribile all’industria dell’acciaio, dell’auto, del carbone, allo smaltimento dei rifiuti, etc. Niente di più orribile e doloroso per chi, narcotizzato dal groviglio degli interessi privati, si accontenta solo di soldi e potere. E non riesco ad immaginare il dolore immane di chi ogni giorno si trova di fronte alla domanda: cosa fare della GESIP?