L’avventura Sunn O))) ha generato molte collaborazioni e creature: una di queste sono i Gravetemple, che quasi corrispondono ai Sunn di Black One senza Greg Anderson (siamo sempre nel periodo d’oro 2005-2006), quelli con dentro il chitarrista sperimentale Oren Ambarchi e il genio Attila Csihar (Tormentor, Aborym e soprattutto Mayhem).
Gravetemple è un bambino (deforme, ça va sans dire) nato dalla necessità di avere braccia per lavorare, viste le distanze geografiche tra i due fondatori del gruppo madre e con la chance per O’Malley (che abita a Parigi) di andare in tour in Israele nel 2006 e suonare in Europa nel 2008 (accompagnati da un batterista: Matt “Skitz” Sanders), senza dimenticare che quest’anno, dopo un lungo sonno, rivedremo il trio al Roadburn e altrove in Europa. Stephen O’Malley è estremamente prolifico ed era inevitabile che – un po’ come nel jazz – la dimensione live per lui diventasse un altro dei modi per far scattare una scintilla, improvvisare, registrare (la trasformazione di Æthenor da trio ambientale a quartetto free potrebbe essere un altro esempio) e in qualche maniera vivere di musica favorendo questi incontri/scambi. Un atteggiamento tutto sommato paradossalmente più genuino di quello che fa nascere i gruppi AOR in provetta (assemblando via posta elettronica il lavoro dello stesso giro di turnisti di lusso, ricombinato a piacere), ma che non origina da sole esigenze artistiche, ma più che altro dalla vita materiale di un artista. Certi lavori di questo tipo vivono di momenti in cui tutto sembra trovare un senso, in mezzo però a parti trascurabili. Ambient/Ruin, per dire, è l’unione di diverse fasi improvvisative, di Attila che si trastulla coi field recordings in Giappone, di registrazioni che s’interrompono troppo bruscamente e di periodi temporali diversi, per cui ad esempio la presenza di Skitz costringe a pensare alla cosa-Gravetemple in tutta un’altra maniera. Non possiamo perciò parlare di un disco unitario, plasmato da tre o quattro idee forti in studio, piuttosto di una band nella quale l’affinità tra musicisti viene lasciata fiorire in corso d’opera. La presenza di Ambarchi in alcuni momenti conduce a un drone doom fantasmatico, ma Attila Csihar è una variabile che permette di spostarsi anche verso altri estremi: Gravetemple è ottimo quando la voce in loop di Attila, seviziata in mille modi, forma una vortice col lavoro dei due strumentisti, sia quando si creano vuoti infiniti e sconfortanti, sia quando prorompono sfoghi noise in piena regola. Più difficile valutare l’efficacia della presenza di Matt Sanders: in pratica, dove in Black One c’era il contrasto tra la staticità drone doom e la velocità del riff black metal, qui al posto del black c’è la batteria sparata in mezzo a suoni che galleggiano e ai latrati di Attila. All’effetto straniante di questo nuovo gioco occorre un po’ abituarsi, ma per alcuni minuti tutto funziona bene, coniando una specie di death metal senza metal.
In sintesi: da prendere con le pinze, ma immagino che ai live il doppio vinile con artwork a firma Bartlett più O’Malley andrà a ruba solo per il colpo d’occhio, come quando da piccoli ci compravamo i dischi nel mondo reale.
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