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L’imprevedibilità però è dietro l’angolo, e irrompe drammaticamente nel momento in cui una pioggia di detriti spaziali, causati dall’urto di due satelliti, colpisce come un’onda irrefrenabile gli astronauti, causando la distruzione dello Shuttle, nonché la morte dell’intero equipaggio ad eccezione proprio della dottoressa Stone e del capitano Kowalsky. I due astronauti, in balia dell’abissale vuoto cosmico, dovranno cercare di raggiungere la stazione spaziale internazionale per mettersi in salvo. Gli aiuti sono impossibilitati, tutte le comunicazioni sono interrotte, Houston non risponde: dovranno cavarsela da soli, trovando un modo per tornare sulla madre Terra. Avete presente quella sensazione di cadere nel vuoto che si ha, a volte, durante il sonno? Quell’istante nel quale l’ingannevole dimensione onirica ci fa sembrare che il corpo sia estraneo da ogni legge di gravità, sprofondando in una caduta senza fine? Bene, provate a immergervi in questa sensazione: Gravity vi catapulta nello spazio, e quelli dentro la tuta siete voi.
L’impatto col film è sbalorditivo: un lunghissimo piano-sequenza magistralmente orchestrato con arditi movimenti fluttuanti della macchina da presa: la sensazione è di essere al fianco dei protagonisti, anche noi liberi nel vuoto, fluttuando senza gravità. Il 3D per una volta è funzionale alla pellicola, incrementando a dismisura l’immedesimazione dello spettatore: Gravity non è il “solito” filmetto che si avvale della visione stereoscopica per meri motivi commerciali.
In esso il 3D è parte integrante della storia, pensato fin dall’inizio come supporto alle immagini. Da sempre sono un grande detrattore di questa forma di fruizione cinematografica, ma credetemi: qui siamo di fronte a un film che ne giustifica l’utilizzo, una delle esperienze cinematografiche più ”reali” e angoscianti che avrete modo di vivere!
Il film visivamente è sbalorditivo: Alfonso Cuarón assieme al direttore della fotografia Emmanuel Lubezki ricreano una visione dello spazio convincente e accurata, dalle immagini della Terra (fornite dalla Nasa) alla ricostruzione interna delle stazioni. C’è da credere che Gravity col tempo si porrà come il metro di paragone per le produzioni cinematografiche sci-fi a venire.
La fantascienza al cinema, nei suoi risultati migliori, è sempre stata utilizzata come pretesto per parlar d’altro, per parlare dell’uomo e dell’umanità, mettendone in risalto le inquietudini e le domande, il suo ruolo e il senso della sua esistenza, il suo bisogno di esplorare spazi ignoti (fisici e spirituali). Gravity è un film che parla di una rinascita. La dottoressa Stone (un’incredibilmente brava e convincente Sandra Bullock, che regge quasi da sola l’intero film), smarrita nel buio del vuoto spaziale, dovrà riuscire a sconfiggere il buio che è dentro di lei (la morte della figlia) e ritrovare una scintilla di vita che le permetta di reagire alle circostanze estreme nelle quali, avversità dopo avversità, si verrà a trovare. Lo spazio è lo scenario estremo nel quale la donna si trova a muoversi, costretta a proteggere quel flebile cordone ombelicale che la lega ancora al suo pianeta natio, talmente vicino quanto incredibilmente difficile da raggiungere. Determinanate per la donna sarà l’aiuto del capitano Kowalsky (un George Clooney guascone in versione spaziale).
Il ritorno sulla Terra come metafora di una rinascita, un ritorno alla vita, quella stessa vita che aveva perso di ogni significato e che ora si riaccende vigorosa come la luce di una stella. Poco importa se la sceneggiatura a volte zoppica, e se qualche dialogo è retorico o ruffiano: resta l’emozione di un film che per novanta minuti tiene col fiato sospeso, ci angoscia mentre viviamo insieme alla protagonista le difficoltà che le si dipanano davanti e ci ammalia con le sue immagini incantevoli. Una cavalcata nello spazio che difficilmente ci dimenticheremo.
di Giacomo Perruzza Fonte: http://radioeco.it
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