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"Ryan, devi imparare a lasciare andare" (Matt Kowalsky)
La prima parola che ho pensato uscita dal cinema è stata “esperienza”. Ed è esattamente quel che è stato Gravity per me e per tutti coloro che, saggiamente, sono andati a vederlo in sala. Che sia piaciuto o meno, per tutti è stata un’esperienza unica. Io, che ho combattuto (stupidamente, mi dico oggi) per anni contro l’insinuarsi del 3d nelle pellicole moderne, mi sono arresa. Alzo bandiera bianca e chiedo perdono per la mia intollerabile ottusità. Come ha detto la mia amica Lucia, il 3d è stato inventato per Gravity. Ed è vero, l’evoluzione tecnologica della visione tridimensionale ha raggiunto livelli inimmaginabili, fino ad arrivare alla perfezione in questo che, permettetemi di usare questo termine, non è altro che un fottuto capolavoro. Per poco più di un’ora e mezza i miei occhialetti 3d coprono lo sbrilluccichio di occhi imbambolati dinnanzi alla bellezza estetica di quest’opera gigantesca.
Siamo nello spazio, fluttuiamo insieme agli astronauti Ryan Stone (Sandra Bullock) e Matt Kowalsky (George Clooney), i quali sono lì per riparare una stazione orbitante insieme ad una squadra. Tutto precipita all’improvviso e tutti noi veniamo catapultati in un incubo allucinante: quello di smarrirci nello spazio. Lo spazio cosmico dove non c’è nulla, dove il silenzio diventa assordante e può spaventare a morte. Questo accade a Ryan e noi siamo con lei, tentiamo col pensiero di prenderla per mano e portarla in salvo, come tenterà di fare Matt, e ci renderemo conto che lo stiamo facendo per davvero. Allunghiamo la mano, ti prego afferrala, le diciamo e ci tratteniamo per stare fermi su quella poltrona. Quello che vogliamo è precipitarci lì e porre fine a questa agonia insopportabile. La solitudine, il buio, l’ignoto. Esiste qualcosa di realmente più terribile? Il film si apre con uno dei piani sequenza più maestosi mai visti, uno spettacolo che ancora adesso mi commuove e che impone di desiderare di poterci andare a fare un giro nello spazio, pur di vedere davvero l’alba sulla Terra, da quel punto di vista. Ma poi pensi, fa lo stesso, me l’ha appena fatta vedere Cuaròn in CGI, una cosa che forse è pure più bella della realtà. Una CGI che occupa praticamente tutto il film, un lavoro che non posso neanche concepire come sia stato realizzato senza che le persone coinvolte non siano finite in riabilitazione. Perché uno se non si droga non può farcela. Come avete fatto, non siete umani, vero? Emmanuel Lubezki, direttore della fotografia, dicci la verità. Siete alieni dalle menti eccelse che vogliono conquistare la Terra come in The World’s End? Fatelo, mi piego al vostro cospetto senza pensarci un nano secondo.
Ma subito dopo la bellezza estetica si finisce col precipitare nell’angoscia più terribile, manca l’aria, lo spazio è claustrofobico. E qui la storia si definisce e la narrazione sgomita prepotentemente. Ryan è una dottoressa, a poco a poco impariamo a conoscerla intimamente e conoscerla è importante. E’ una donna con dei traumi, una donna che, probabilmente, prima di intraprendere questo viaggio credeva di non avere nulla da perdere. Invece scoprirà che qualcosa da perdere c’è sempre. La vita, ad esempio. Lo spazio in cui è dispersa Ryan è un luogo di solitudine e di silenzio metafisici, dove ti puoi perdere per sempre oppure fare i conti con te stesso e ricominciare. E per farlo, bisogna lasciare andare qualcosa. E’ sempre così, dopotutto. Lei ce la metterà tutta, nonostante paracaduti che complicano tutto, carburante che finisce, fiamme inaspettate, estintori che si bloccano e altro ancora. Perché, nella cosmo-sfiga, c’è sempre la possibilità di respirare della CO2. E potrebbe essere la cosa migliore che ti possa capitare.
Fatemelo dire, la Bullock è così brava che non riesco veramente a capire come si possa ancora insistere col definirla un’attricetta insignificante. Io non l’ho mai amata particolarmente, ma nemmeno il contrario. E in Gravity dimostra che, se le viene data una parte difficilissima, dove non ha il tempo di sparire neanche per un attimo, una parte che le impone di farsi carico di tutto quanto il film, si fa un culo così e ci riesce perfettamente. E porcoggiuda che razza di corpo ci mostra, ad un certo punto, in un finale meraviglioso quanto l’introduzione. E Clooney? Beh, lui funziona, Matt è il personaggio che stempera un po’, ci aiuta a riprendere fiato, fa simpatia e viene usato moderatamente, per fortuna.
Come vi ripeto, il film è della Bullock. E di quell’uomo speciale che è Alfonso Cuaròn. Lui che ha diretto cose bellissime come Y tu mama tambien (ne riparleremo), Harry Potter e il prigioniero di Azkaban e I figli degli uomini (quest’ultimo è o non è un film splendido?) ha ricevuto elogi addirittura da James Cameron e da Guillermo Del Toro. Allora io penso, a questo punto, che quasi quasi faccio le valige e mi faccio adottare. Biglietto di sola andata per il Messico e tanti saluti. Chiedo ad Alfonso e Guillermo se possono comprare casa insieme e lasciarmi vivere con loro. Basta che mi portino sul set. E sarebbe, certamente, una nuova, straordinaria esperienza.
Silly
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