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"Gravity" senza gravità: la cosa che più rimane del film di Cuarón è l'effettiva mancanza di un supporto, è l'idea di un cinema che è arrivato finalmente a pensare se stesso senza bisogno di alcun suolo, come a dire che rimane (solo) l'universo. In questa coreografia di corpi che danzano nello spazio, si perdono, si ritrovano, il momento più alto è quel primo piano-sequenza dove si trova già tutto il film. Nel suo coniugare spazio e movimento, nella sua immersione 3D (il migliore, a livello spettacolare, dai tempi di Avatar), si ritorna a un tempo reale, a uno spazio visitabile, percepibile, eppure oscuro. Svanendo nel buio la macchina da presa è libera di fluttuare (per ritrovare poi un altro sguardo, solitario, instabile ma vitale), tornando prima a una posizione fetale, e poi a una nuova, primordiale rinascita. Poco importa il tasso di prevedibilità del film, questo è puro cinema antigravitazionale.
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