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Grazia Deledda: ELIAS PORTOLU, apologia scritturale dell’alterità letteraria isolana.

Creato il 29 giugno 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

d220px-Grazia_Deledda_1926i Rina Brundu. Insieme a Cenere (1904), l’Elias Portolu** (1900) è uno di quei romanzi di Grazia Deledda che si fanno ricordare, nonostante gli anni trascorsi dalla prima lettura. Ed è, per quanto mi riguarda, una delle opere che giustificano in pieno i riconoscimenti letterari internazionali dati a questa grande donna sarda, con buona pace dei suoi molti detrattori. Nello scritto che segue non intendo avventurarmi in un’altra interpretazione delle tematiche o pseudotematiche che in questo particolare lavoro avrebbe affrontato l’autrice, più o meno coscientemente – di tali speculazioni è piena la Rete – né voglio perdermi in un’altra ricapitolazione della trama(1) che, per questo motivo, pubblico in calce.

L’intenzione è come sempre quella di tentare una breve analisi tecnico-scritturale dell’opera in questione, adottando una prospettiva fortemente critica che permetta di trarre una qualche macro-conclusione capace di sostenere la mia tesi di fondo, ovvero che l’Elias Portolu sia anche uno dei pochi romanzi-capolavoro della letteratura italiana. Il fattore “eccellenza” dentro un limitato contesto geografico è purtroppo da sottolinearsi e fa equivalenza con il brutale dire che l’Elias Portolu non è comunque un capolavoro della letteratura mondiale. L’ultimo statement non è uno statement logico, non è una consequentia-rerum e matter-of-fact rispetto ad un immaginifico limite autorale (sebbene pure questo sia un elemento da considerarsi, come dirò poi), ma è piuttosto uno statement-tecnico, per lo più determinato dalla mia convinzione che il meglio della sua potenzialità, la letteratura mondiale l’abbia prodotto solamente due decadi dopo la scrittura di quest’opera deleddiana; ovvero, che l’abbia prodotto non all’interno di un contesto veristico, decadentistico, pseudo-naturalistico, quanto piuttosto dentro le dinamiche moderniste di matrice culturale europea delineate e tracciate dall’arte insuperata dei vari Kafka, T.S. Eliot, Ezra Pound e pochi altri (non si può considerare il grandissimo Pirandello – non fosse altro per l’humus provinciale dentro cui si è manifestata la sua vena ispirata - un modernista-tout-court, e queste sciocchezze non bisognerebbe scriverle, neppure in Rete!).

Troppo presto quindi per la Deledda per profittare di tali benefici influssi? Non direi, questo perché l’arte deleddiana – come sovente accade mentre ci si confronta con le dinamiche asfittiche e spesso ingombranti del microcosmo-isola - quando raggiunge l’apice delle sue potenzialità – l’Elias Portolu docet! – sviluppa un tratto proprio, riconoscibilissimo. Un tratto unico determinato dalle peculiarità della sostanza socio-culturale che andava trattando, e condito dunque di quell’ingrediente esclusivo capace di giustificare e determinare in maniera formidabile le ambizioni letterarie dell’alterità isolana in questione: la sardità dell’autrice e la nostra. Da questo punto di vista si può anche dire – la perfezione dell’incipit che segue lo dimostra – che in romanzi come l’Elias Portolu, la produzione della Deledda sovrasta di tanto tutta la produzione letteraria italiana ad essa contemporanea, nonché ogni tentativo fatto nell’ultimo quarto di secolo, da parte di una nutrita schiera di autori sardi, di scrollarsi di dosso l’ingombrante eredità letteraria che pende sulle loro teste come una spada di Damocle. Nello specifico faccio riferimento a quel filone di matrice magico-realista che, secondo me, ha ottenuto i suoi migliori risultati con l’arte di Salvatore Niffoi.

Ma dicevo dell’incipit di Elios Portolu. Eccolo:

Giorni lieti si avvicinavano per la famiglia Portolu, di Nuoro. Agli ultimi di aprile doveva ritornare il figlio Elias, che scontava una condanna in un penitenziario del Continente; poi doveva sposarsi Pietro, il maggiore dei tre fratelli Portolu. Si preparava una specie di festa: la casa era intonacata di fresco, il fino ed il pane pronti; pareva che Elias dovesse ritornare dagli studi, ed era con un certo orgoglio che i parenti, finita la sua disgrazia, lo aspettavano”.

Se la scrittura deleddiana è scevra da ogni tratto modernistico, di certo non manca di una stupefacente modernità. A dire il vero è soprattutto questo suo tratto “moderno” a dare, ancora oggi, all’arte della scrittrice nuorese quella supremazia di cui sopra. Di fatto in Elias Portolu le sono bastate cinque righe! Cinque righe per settare il tono del romanzo, per raccontare l’eroe e il background familiare e culturale di riferimento, per dare nota del tempo-dell’anno, per descrivere a meraviglia dati ritmi e credo ancestrali di un’intera civiltà, quella SARDA. Non solo: dentro quelle cinque righe il segmento “Agli ultimi di aprile doveva ritornare il figlio Elias, che scontava una condanna in un penitenziario del Continente” racconta l’elemento esclusivo “sardità” a tutto tondo: scritturalmente, letterariamente e culturalmente, in maniera impeccabile!

Questa per me è arte! Ed è una conditio-sine-qua-non per continuare a leggere un libro. Ancora, muovendo dentro il testo, in quest’epoca di scrittura online, di scrittura mordi-e-fuggi, di scrittura solamente abbozzata per mancanza di voglia, di tempo, di idee; di scrittura che è fondamentalmente anti-scrittura rispetto ai canoni grammaticali basici (non che questo sia un male, dato che uno scrittore non è un grammatico e appena comincia ad esserlo bisognerebbe impedirgli di considerarsi tale!), sorprende la bellezza conservata intatta dell’impronta veristica insita nel raccontato. Sorprendono piacevolmente i ritratti di uomini e di donne abbozzati con pochi tocchi, con maestria, finanche con amore. Sorprende un livello scritturale  dove, paradossalmente, l’elemento modellante sardità si propone più netto e distinto grazie a questo sardo-italianizzato usato all-along dalla Deledda, piuttosto che nelle opere di letteratura contemporanea, quelle di Salvatore Niffoi comprese, dove l’autore ha preferito fare diretto ricorso al linguaggio autoctono degli eroi presentati.

Il tutto per dire che questa sardità-scritturale oggettivata in forma di metafore colorite e colorate, di descrizioni vivide, di paratesto socio-culturale a tratti noioso a tratti sublime, è in fondo l’elemento chiave che giustifica anche la grande qualità estetica che pervade tutto l’Elias Portolu e diversi altri romanzi di Grazia Deledda. Ed è l’elemento chiave che ne fa uno dei capolavori assoluti della letteratura italiana. Avendo discusso la mia tesi come proposta nell’incipit si potrebbe chiuderla qui, se non fosse che restano senza risposta le domande retoriche che implicitamente formulo in questo pezzo: per esempio, perché, nonostante le indubbie qualità e nonostante la sua indubbia modernità, quest’opera deleddiana manca del tratto eccelso di un capolavoro modernista? Perché la sua ambizione-letteraria è comunque circoscritta al background geografico nazionale? Date e considerate le peculiarità scritturali e culturali fin qui analizzate, la risposta non è naturalmente che l’Elias Portolu non è un capolavoro modernista perché è un capolavoro verista (seppure, sui-generis). A mio avviso, invece, il “limite” -  evidente, francamente - del romanzo è determinato da una serie di elementi nettamente individuabili.

Questi elementi sono, nell’ordine:

1)   Il tratto soffocante che sempre fa da infausto underlying-asset a qualunque scrittura provincialistica (in senso tecnico) che pensi di imporsi ad un dato livello solamente in virtù della magia e della qualità lirico-sublime che riesce comunque ad esprimere.

2)   Un main-theme – quale è quello dell’amore impedito, dell’amore ostacolato, dell’amore non corrisposto, dell’amore disperato, dell’amore romantico irrealizzato che diventa paravento per giustificare l’effettivo shipwrecking dell’anima – che ha dei limiti intrinseci (i.e. un tale main-theme, così verbosamente sviscerato, ci starebbe in un capolavoro kafkiano come i cavoli a merenda, tanto per usare un noto toscanismo).

3)   La Deledda, con tutto l’affetto, è un altro dei tanti autori che non sono Kafka. E questo mi pare pure pacifico.

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Nota in calce: Come ogni mia scrittura, questa breve nota critica è un mero reporting su carta digitale dei miei pensieri sull’argomento considerato, in questo caso l’arte scritturale deleddiana. Per natura, per disposizione dell’anima, per elezione, sono assolutamente incapace di accodarmi alle visioni altrui, non importa chi sia la mente dietro la visione-altra, o quanto quella risulti illuminata. Ne deriva che la mia idea dell’arte scritturale di questa mia grande conterranea è si è formata in virtù delle mie letture, seppure datate, di quei suoi testi, dalla mia formazione specialistica in materia di critica testuale, certamente dalla mia diversa prospettiva di lettrice “anglofona”, sebbene per adozione, e sicuramente dal mio condividere con la Deledda un unico tratto, purtroppo per me: una grande coscienza della nostra sardità! Ne deriva che ciò che ho riportato qui sopra nero su bianco non è una verità, ma semplicemente una mia visione informata del tema trattato, che ha valenza solamente in quanto tale. Ne deriva altresì che all’autrice dell’Elias Portolu e a lei sola debbo le mie scuse se non ho saputo interpretare al meglio la sua visione artistica; perciò, o tu navigatore solitario che tutto dirimi sulla letteratura italica e appressandoti a questo nota critica storci il naso, che caspita ci fai qui? Non sono abituata a rileggere ciò che scrivo, meno che meno ad editare, non lo farò neppure per te…

Rina Brundu, in Dublin on the 29th of June 2013.

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1)   Il romanzo si evolve intorno alla figura di Elias, secondo dei tre fratelli Portolu, di Nuoro. La sua presentazione nel primo capitolo al finis operis, la Deledda ne descrive la vicenda psicologica e umana, su cui l’impianto narrativo stesso si fonda. Le descrizioni dei paesaggi sardi e il ritratto di una cultura in evoluzione dall’arcaismo regionale all’individualismo borghese è reso nei suoi tratti umani ed essenziali. La passione che deriva da questi moti animi si riversa nella vicenda e la pone al vertice di una letteratura distante e nel tempo stesso presente ai temi che si sono affermati nel Novecento letterario. Tornato da un periodo di reclusione in un penitenziario “del continente”, il giovane Elias, maturato spiritualmente e intellettualmente, è pervaso dal desiderio di iniziare una vita nuova, lontana dalla spensieratezza del passato e della sua infanzia, lavorando nell’ovile della famiglia. Ma il gioco di sguardi con la futura cognata Maddalena, fidanzata del fratello Pietro, si rivelerà origine di un amore fatto inizialmente di complicità e desideri, che sfociano poi in una relazione adulterina. Il protagonista vive questo Amore con insanabili sensi di colpa, ma anche con passione, e questo stesso amore lo vede eterno Cercatore, viandante delle esperienze della vita, alle quali non può sottrarsi, perché umanamente fragile, come una canna al vento (Canne al vento è anche il titolo di un’altra opera deleddiana). Non possono mancare, in questa vicenda, i “consiglieri” del ragazzo; da un lato prete Porcheddu, sacerdote ilare ma fermamente convinto nella morale cristiana, che lo induce a diventare prete, e zio Martinu Monne, vecchio pastore dal passato misterioso la cui unica ragione è quella della vita, nella sua irrazionale passionalità. Elias è esortato da zio Martinu a proseguire la relazione amorosa, accettandola come inevitabilità alla quale non ci si può opporre. La scena cambia quando Maddalena resta incinta; padre di un bambino che non potrà avere, per evitare uno scandalo, Elias assume la ferma decisione di prendere i voti. In questa tensione morale si verifica un’ulteriore tragedia: Pietro muore per un’infiammazione ai reni. Quando il bambino nasce, viene riconosciuto come figlio di Pietro, ormai defunto. Ma a questo punto Elias è sul punto di ricevere gli ordini. Tre giorni prima della cerimonia, Maddalena chiama a sé Elias e lo prega di sposarla dichiarandosi padre del Bambino. Ma la decisione è già presa, inequivocabile. Solo alcuni anni più tardi, sul letto di morte del piccolo figlio affetto da una segreta infiammazione, Elias riscopre veramente sé stesso e, dopo la sua morte, si libera dalla passione umana della materialità per elevarsi a un amore divino, sacro, l’unico cui l’uomo può aspirare, evadendo dalla sua limitata e soffocante condizione (riassunto della trama, fonte Wikipedia).

** Elias Portolu di Grazia Deledda, 1900. Chi lo desidera può scaricarne qui (cliccando sul titolo del romanzo), il pdf gratuito che ho trovato disponibile in Rete. Si tratta della versione pubblicata da Ilisso, Nuoro, 2005, con prefazione di Leandro Muoni.

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