Ho letto Cent’anni di solitudine nell’estate dei 15 anni. Ero in vacanza in una vecchia casa in Puglia, con la sorella minore e i genitori in quell’età in cui si vorrebbe essere già liberi. Non potevo staccarmi da quel romanzo, era la porta sul mondo largo di cui ero assetata, pieno di personaggi appassionati e di spirito nobile come non era nessuno degli adulti che avessi intorno.
Leggevo anche camminando, se qualcuno mi chiamava, e su e giù dalla scala esterna in calce bianca che collegava il piano terra a quello superiore. Sognavo un amore con le farfalle gialle, una vita epica come solo i grandi libri sanno regalarti.
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Tornata a casa scovai nella libreria una copia di Cien años de soledad in spagnolo, residuato degli studi universitari di mia madre. Lo divorai da capo, più che capire intuivo, immaginavo, già sapevo. Il mio primo romanzo di Márquez è stato la scoperta del mondo e, insieme, della letteratura. Per anni ho letto covando sempre la nostalgia di Macondo.
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Dopo Cent’anni di solitudine mi sono tuffata a capofitto in Cronaca di una morte annunciata, Nessuno scrive al colonnello, Foglie morte, L’amore ai tempi del colera e non so più che altro. Su un quaderno annotavo le frasi più belle. Scritto in una grafia perfetta, e ahimé perduta, ora che batto su una tastiera, lo rileggo in cerca di due righe che ho sempre citato agli uomini che ho incontrato e alle quali, tutti immancabilmente, rimanevano indifferenti. Ne L’amore ai tempi del colera Gabriel García Márquez scrive: «Le donne pensano più al senso nascosto delle domande che alle domande stesse».
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Può sembrare strano ricordare un grande scrittore con due righe così. Ma ho sempre trovato grandioso quel saper cogliere, in poche parole da niente, l’essenza più profonda della natura femminile.
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Grazie, Gabo. Riposa in allegria.
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Scritto da: Francesca Magni
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