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"You are part of my existence, part of myself. You have been in every line I have ever read, since I first came here, the rough common boy whose poor heart you wounded even then. You have been in every prospect I have ever seen since – on the river, on the sails of the ships, on the marshes, in the clouds, in the light, in the darkness, in the wind, in the woods, in the sea, in the streets. You have been the embodiment of every graceful fancy that my mind has ever become acquainted with. The stones of which the strongest London buildings are made, are not more real, or more impossible to displace with your hands, than your presence and influence have been to me, there and everywhere, and will be. Estella, to the last hour of my life, you cannot choose but remain part of my character, part of the little good in me, part of the evil. " (Charles Dickens, Great Expectations)
Imbattibile osservatore e pittore di un'umanità tragica e indomabile, Charles Dickens ha plasmato il romanzo a sua immagine e somiglianza raccogliendo le voci di un mondo tanto doloroso e spietato quando generoso e compassionevole, ricreato sulla pagina con tale ricchezza di dettagli da assumere le vesti di un vero e proprio racconto cinematografico ante litteram: tuttavia, il desiderio di preservare la completezza delle sue opere e soddisfarne le ambizioni ha però spesso spinto anche troppo spesso la vastissima produzione dickensiana fra le braccia del piccolo schermo, mezzo senza dubbio più favorevole a dare respiro alla storia senza stringerla fra le inevitabili barriere spaziali e temporali che scandiscono la vita di un lungometraggio.
Ennesima dimostrazione di quanto sia difficile toccare le corde giuste per portare Dickens al cinema è la versione di Grandi Speranze(Great Expectations) firmata da Mike Newell, arrivata con tempismo perfetto in occasione delle celebrazioni per il bicentenario dello scrittore inglese e costretta suo malgrado a uno scontro quasi obbligato con l'omonima miniserie BBC uscita appena un anno prima e illuminata da una grandissima Gillian Anderson, un ottimo Douglas Booth e una magnetica Vanessa Kirby.
Dopo gli esotici e appassionati scenari de L'Amore ai Tempi del Colera, il regista di Quattro Matrimoni e un Funerale tenta nuovamente la carta del classico letterario mettendosi nelle mani di David Nicholls, scrittore e sceneggiatore reduce dall'adattamento cinematografico del suo stesso romanzo "One Day", commettendo purtroppo un imperdonabile errore: nonostante la mole di materiale sia inferiore rispetto ad altre opere di Dickens, Nicholls opera sulla sceneggiatura di Grandi Speranze lo stesso dannoso lavoro di taglio e cucito che aveva reso One Day un film gradevole e con momenti oggettivamente commoventi, ma pronto a scivolare via poco dopo la visione senza colpo ferire; davvero un peccato che abbia scelto di guardare a sé stesso e non abbia preso come esempio l'Oliver Twist di Roman Polanski, inevitabilmente epurato di molti sviluppi del romanzo originale ma capace di preservare intatte le caratteristiche più straordinarie e vibranti dell'universo del libro riuscendo addirittura ad amplificarle.
Il tentativo di Nicholls di non perdere di vista i punti salienti della storia costruendo lo script come una serie di quadri narrativi si rivela poco efficace quando senza amalgamare a dovere le differenti linee della storia quel che rimane sono soltanto suggestive illustrazioni incapaci di scavare a fondo e portare alla luce il vero cuore della narrazione dickensiana: i volti di quegli splendidi e giganteschi personaggi così vividamente descritti, pronti a affrontare mille difficoltà prima di trovare la pace nella certezza degli affetti o costretti con sguardo malinconico ad arrendersi a una vita che li ha traditi e delusi, restano solo delle caricature se privati di un degno e affascinante paesaggio interiore e lasciati soli, in balia dei tratti più marcati e grotteschi della loro caratterizzazione.
A cadere nella trappola non è il tagliente Jaggers di un inedito Robbie Coltrane o lo splendido Magwitch di un Ralph Fiennes in grado di compensare le mancanze nella scrittura con una prova intensa e commovente , ma piuttosto la Miss Havisham di Helena Bonham Carter, grandissima attrice ormai intrappolata da troppo tempo in interpretazioni freak sempre uguali a sé stesse, che nei panni dell'inquietante sposa fantasma decisa a infestare la Magione di Satis House non riesce quasi mai a convincerci fino in fondo della spaventosa eppur crudelmente ironica disperazione del suo personaggio; non se la cava meglio una Holliday Grainger che pur avendo preso lezioni in materia di freddezza, calcolo e seduzione da Lucrezia Borgia in persona non ha sufficiente spazio per farci avvertire il lacerante contrasto che abita il cuore dell'imperturbabile Estella, personaggio insolito e anticonvenzionale che non può affidarsi semplicemente a vistosi costumi e gioielli o alla stessa bellezza anacronistica anacronistica della sua attrice per comunicare la sua sofferenza.
Al seguito di una sceneggiatura che abbozza appena il suo arrivismo sociale per concentrarsi sull'amore senza speranze ma forse cinematograficamente più interessante per la sua bella amica d'infanzia, il Pip di Jeremy Irvine non riesce ad essere l'incisivo protagonista che ci saremmo aspettati, ma al suo secondo ruolo in una grande produzione il giovane attore inglese lavora al meglio delle sue possibilità riuscendo, dopo più di un'ora e mezza di interminabile attesa, a scaldare di cuore del film (e della stessa Estella) con una dichiarazione d'amore finalmente autentica e sentita.
Chiamato a dirigere un grande cast di chiara ispirazione "potteriana"(chi scrive dubita fortemente che la riunione di Fiennes, Carter e Coltrane non abbia nulla a che vedere con l'esperienza di Newell sul set de Il Calice di Fuoco) partendo da uno script deludente, Mike Newell si attiene a una regia ordinaria e senza particolari guizzi che si sposa bene con una classica resa da period drama ma perde l'opportunità di osare e donare nuova freschezza all'opera letteraria ( cosa che, andando in altri lidi, con un furbo e vivace uso del flashback era riuscita magnificamente alla Jane Eyre di Cary Fukunaga); per dirla come il grande e immortale Charles Dickens, un film dalle grandi speranze tristemente disattese, privato della sua anima dallo stesso gelido incanto di freddezza, distacco e crudeltà che Miss Havisham vorrebbe gettare sul mondo.
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