di Matteo Zola
Alle prime ore della mattinata di oggi, in piazza Syntagma ad Atene si sente ancora aleggiare nell’aria l’odore dei lacrimogeni. Gli scontri di ieri hanno portato a 65 persone arrestate (altre 75 sono in state fermate). I lavori dei vigili del fuoco continuano nelle strade principali. Sono ben 45 i negozi dati alle fiamme dalla rabbia dei manifestanti che hanno protestato contro l’ennesimo piano di austerity che garantirà l’erogazione di una nuova tranche di prestiti da parte di Unione europea e Fondo monetario internazionale. I nuovi tagli ammontano a 3,3 miliardi di euro e porteranno a una drastica riduzione dei salari del 22%, alla riduzione delle pensioni e al taglio di altri tremila di posti di lavoro. Così, mentre la Grecia affonda, le borse aprono in rialzo.
Il sindaco di Atene, Giorgos Kaminis, ha riferito che alcuni dei manifestanti hanno provato a fare irruzione nel palazzo del municipio, ma sono stati respinti. «Una volta ancora, la città è stata usata come leva per provare a destabilizzare il Paese». Il rischio che la rabbia diventi una spirale di violenza senza fine capace di aprire la via a movimenti politici autoritari non è così remota.
Occorre ricordare che il debito greco è frutto delle cosmesi al bilancio, diciamo pure dalla frode, realizzata dapprima dai socialisti del Pasok al governo, poi taciuta per convenienza dal governo di Nuova Democrazia. Le responsabilità politiche greche sull’attuale crisi sono dunque evidenti. Come evidente è pure che l’interesse a salvare la Grecia è dovuto sia alla volontà di salvare l’eurozona, sia alla necessità di Parigi e Berlino (principali creditori di Atene) di vedere salve le proprie banche. In questo quadro, già di per sé torbido, s’inseriscono le misure di austerità imposte dal Fmi in cambio dei prestiti necessari a salvare la Grecia. Ma l’ipotesi di creare un fondo a parte, su cui il Governo greco non avrebbe diritto di parola, rafforza l’idea che il reale interesse internazionale non sia quello di aiutare la Grecia a risollevarsi dal baratro in cui è finita per sua stessa mano, ma salvare le banche franco-tedesche.
Fatte le debite proporzioni occorre ricordare che dopo la Prima guerra mondiale la Germania, sconfitta, fu costretta a pagare le spese di guerra: una cifra tale da non essere rimborsabile e che gettò il Paese in una profonda crisi economica e politica da cui sorse il nazionalsocialismo hitleriano.