GRECIA: Il referendum sugli aiuti che agita le borse e minaccia l’euro. Ipotesi per un suicidio

Creato il 01 novembre 2011 da Eastjournal @EaSTJournal

di Matteo Zola

Il primo ministro greco, George Papandreu, ha annunciato un referendum sul nuovo piano di aiuti (il secondo) concordato con l’Unione Europea lo scorso 26 ottobre. Le borse non l’hanno presa bene, Atene è in caduta libera, il fuoco greco bruciacchia l’Italia e i leader europei hanno i telefoni roventi. Napolitano in testa. Il referendum vedrà con ogni probabilità il rifiuto del piano di aiuti europei: i greci, secondo i sondaggi, sono stanchi di misure di austerity. Il rischio è il tracollo dell’euro. Papandreu, in drammatico calo di consensi, cerca forse di salvare la legislatura. La domanda è duplice: cosa succederebbe se la Grecia rifiutasse il piano di aiuti dell’Unione? E cosa ha spinto Papandreu a questa decisione da più parti definita “suicida“?

Cosa prevede l’accordo salva-Grecia

Il piano di aiuti dell’Unione, concordato con la Grecia lo scorso 26 ottobre, prevede il taglio del 50% del valore delle obbligazioni e una riduzione del terzo del debito di Atene in cambio di nuove risorse per 130 miliardi di euro. Un accordo che sembrava soddisfare tutti, Papandreu in testa che ha dichiarato: “è arrivato un nuovo giorno per la Grecia”. Il taglio del 50% del valore nominale dei titoli di debito greco sarebbe ricaduto sulle banche private che quel debito detengono: in primis banche francesi e tedesche. Per le banche si tratta in verità di un compromesso nel quale poco hanno da perdere trattandosi di un debito – quello greco – comunque insolvibile e che le avrebbe esposte al crack finanziario. Un crack che avrebbe trascinato Francia e Germania nel baratro. Un rischio da evitare a tutti i costi: lo stesso 26 ottobre si è deciso di ricapitalizzare le banche di almeno 160 miliardi di euro entro sei mesi. Alla Grecia sarebbe invece arrivata una nuova tranche di aiuti da 100 miliardi cui Papandreu ha chiesto di aggiungere altri 30 miliardi come “premio” per aver sottoscritto l’accordo.

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La marcia indietro di Papandreu

Anche per la Grecia, dunque,  sembrava un buon patto: con il taglio del 50% il debito greco sarebbe tornato al 120% del Pil entro il 2020 e nuovi aiuti sarebbero arrivati in cambio -però -di nuove e più rigide misure di austerity. Allora perché Papandreu ha fatto marcia indietro? Secondo le dichiarazioni trasmesse ieri dal canale pubblico Vouli TV, il premier Papandreu ha spiegato che “la democrazia è viva e vegeta e i greci sono chiamati a compiere un dovere nazionale al di là dei normali processi elettorali”.

Gli scenari del post-referendum

Il referendum sugli aiuti, che si dovrebbe svolgere nelle prossime settimane, apre diversi scenari: se vincesse il “sì” Papandreu uscirebbe rafforzato e potrebbe così proseguire nelle draconiane manovre di austerity imposte dall’Unione e dal Fmi. Il “no” vedrebbe Papandreu costretto alle dimissioni, renderebbe difficile il proseguo del salvataggio della Grecia, e forse costringerebbe Atene ad uscire dalla moneta unica causando un effetto a catena su altre economie dell’Unione, per prima l’Italia. L’opinione pubblica sembra orientata al “no”. Ecco che la mossa di Papandreu non si giustifica.

Papandreu e il referendum, solo strategia?

Il dubbio – di chi scrive – è che il referendum sia solo (a seconda di come la si vuole vedere) una minaccia, un ricatto, un modo per ottenere da parte di Papandreu spazi di manovra più ampi nello sbilanciato rapporto tra Grecia e istituzioni finanziarie europee e internazionali che vede queste ultime in posizione di forza.

Atene deve infatti accettare le misure “dettate” da Fmi, Bce ed Unione se vuole ottenere i fondi necessari per evitare il default. Il default greco, però, specie se non “pilotato” trascinerebbe nel baratro mezza Europa, segnando forse la fine della moneta unica. Ecco che il potere contrattuale di Papandreu aumenta. E minacciare il referendum – con tutte le sue probabili nefaste conseguenze – sembra un modo per rinegoziare l’accordo da parte di Papandreu, per ottenere qualche “sconto” o qualche vantaggio negoziale.

La dittatura del Fmi e il pericolo per la democrazia

La partita è aperta, in queste ore Merkel e Sarkozy sono al telefono per decidere sul da farsi ed è possibile che il referendum non si tenga mai.

Chi scrive vede con scetticismo le misure di austerity ritenendo la cura peggiore della malattia. Oggi l’Fmi è a modello dell’economia neoliberista e si basa sulla convinzione che il libero mercato sia la soluzione migliore per lo sviluppo economico. Per questo agisce attraverso tre canali principali: la svalutazione della moneta locale; la riduzione del deficit di bilancio; le privatizzazioni massicce. Questo comporta aumento dell’inflazione, a causa della svalutazione, e quindi l’impoverimento. I tagli di bilancio si concentrano sul settore pubblico, colpendo sanità e istruzione. Le privatizzazioni tolgono qualisiasi controllo ai prezzi delle utenze.

Il Fondo eroga soldi solo a patto che se ne accettino i piani di aggiustamento economico. Gli Stati che accettano perdono sovranità economica. Le politiche economiche del Fmi sono obbligatorie, e scavalcano la consultazione dei cittadini: lademocrazia ne esce perciò impoverita. I cittadini, esasperati dalla disoccupazione e dall’inflazione, protestano invano. E per questo sempre più violentemente. Diventa allora necessario rafforzare gli organi di sicurezza e reprimere il dissenso. Così la democrazia viene messa ulteriormente in serio pericolo.

La democrazia al netto del disastro


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