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La riunione dell’Eurogruppo non ha messo fine all’incubo del debito greco. L’inefficienza di Atene pesa, ma i messaggi contraddittori e la mancanza di una strategia chiara da parte dell’Ue ha contribuito a rendere la matassa inestricabile.
Con l’accordo politico di Atene e la riunione dell’eurogruppo, giovedì hanno fatto un passo avanti le trattative attorno al debito della Grecia, ma la soluzione rimane sul filo del rasoio, come sempre da quando sono emersi i suoi guai. C’è la frusta della scadenza del 15 febbraio, dopo la quale, si dice, è inevitabile un default disordinato e
pericoloso per tutta l’eurozona. Non sarà semplice mettere al sicuro per tempo gli impegni del governo sulle nuove misure di austerità, la procedura per l’erogazione degli aiuti europei e la ristrutturazione 'volontaria' del debito pubblico, che accolla una parte del riequilibrio ai creditori che hanno investito in titoli greci rischiosi e molto redditizi.
La tattica del filo del rasoio, dell’allarme crescente con l’avvicinarsi di scadenze presentate come fatali, ha la sua logica, per rompere le resistenze delle parti contraenti e far funzionare la pressione dei mercati. In realtà il problema greco non è abbastanza grande da rendere impossibile rinviare le scadenze, se fosse opportuno farlo. Sono evidenti le responsabilità della Grecia. Ma sono gravi i difetti del modo con cui l’Ue ha gestito la crisi.
Fin dal 2009, si sono chiesti ai greci aggiustamenti troppo rapidi per esser fatti bene ed essere digeribili politicamente e socialmente. Sarebbe servita più cura nel disegnare riforme strutturali e scadenzarle su un periodo realisticamente lungo, assicurando il finanziamento necessario, anche a progetti specifici orientati alla crescita, di scadenza in scadenza, senza consentire ai tassi sulle nuove emissioni di titoli di Stato di raggiungere i livelli che hanno toccato. Si è preferito giustificare una certa tracotanza dell’Europa col fatto che i greci avevano imbrogliato i conti; si è data l’impressione che la Grecia contasse per l’Ue solo perché poteva contagiare la finanza di Paesi «più importanti», come il nostro; l’Europa avrebbe dovuto impegnarsi di più, anche sul fronte della comunicazione e dell’immagine, a valorizzare le potenzialità della Grecia e aiutare la sua popolazione a capire e accettare le riforme.
Le autorità europee hanno inoltre permesso che si creassero equivoci e confusione su diversi fronti. Innanzitutto non sono riuscite a filtrare le troppe controparti con cui i greci devono trattare. La Commissione ha svolto un ruolo notarile; un complesso insieme di aiuti bilaterali ha lasciato spazio ai particolarismi di diversi governi nazionali; in particolare, i premier tedeschi e francesi si sono mossi come battitori liberi con sollecitazioni e minacce, giocando a rimpiattino con procedure e scadenze; la Bce è stata chiamata a un improprio ruolo di supplenza dei governi nell’assicurare i finanziamenti a medio-lungo termine; è stato coinvolto il Fmi, suscitando non poche controversie, dando l’idea che senza Washington ci manchino soldi e competenze per gestire il problema greco; gli aiuti ufficiali sono stati considerati crediti privilegiati, accrescendo i rischi dei creditori privati, ma si è lasciato che la trattativa dei lobbisti privati, per la ristrutturazione «volontaria» del debito, si sovrapponesse confusamente ai rapporti fra autorità greche e comunitarie.
Altra confusione si è fatta sulla questione del default. Prima lo si è escluso completamente, con dispregio del mercato che, chiedendo tassi alti, mostrava di considerarlo possibile. Si voleva evitare che il panico contagiasse il debito di altri Paesi. Ma escludere il default implica una garanzia di salvataggio che non si voleva dare: sicché il contagio non è stato evitato. Poi si è favorita una trattativa con i creditori privati per un default parziale e volontario assicurando, non si sa bene su quali basi, che sarebbe stata un’assoluta eccezione. Nel frattempo si sono fatti gravi pasticci con le regole di contabilizzazione dei debiti sovrani nel bilancio delle banche: si è passati da stress-test permissivi, che consideravano quasi tutti i titoli di Stato non svalutabili, all’obbligo di valutarli ai prezzi stracciati che quota il mercato. Dopodiché non si sa più se il vero problema sia la solvibilità del governo greco o quella delle banche creditrici.
Non è stata presa in considerazione l’idea di accelerare l’adozione di una procedura erga omnes per ristrutturare i debiti pubblici insostenibili con tempestività, cioè quando ancora non si è accelerato il circolo vizioso fra il debito e gli interessi che su di esso maturano, e in modo ordinato, giusto e tale da evitare panico e contagi. Si è anzi detto che la presenza di una procedura del genere renderebbe il contagio più probabile. Ma non sarà la sua assenza a evitare il rischio che, dopo aver concluso in qualche modo il pasticcio greco, ne riprenda uno, per esempio, portoghese.
Non è mancata anche, più per colpa di molti economisti che delle autorità comunitarie, la confusione fra default e uscita dall’euro. Mentre il default ordinato riduce realmente il debito di un Paese, uscire dall’euro significa selvagge svalutazioni subito neutralizzate dall’inflazione e dall’emarginazione del Paese nei mercati internazionali.
Quando si insiste nel dire che l’aera dell’euro è troppo disomogenea e che almeno la Grecia non dovrebbe farne parte, sarebbe bene tener conto di come le cose sarebbero andate se l’Ue avesse evitato tutte queste ragioni di disordine e confusione. fonte
di FRANCO BRUNI
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