Mentre in Grecia l'avvicinarsi di un possibile accordo (dato ancora una volta per imminente, forse già nelle prossime ore) sulla ristrutturazione del debito e l'adozione di misure di austerity richieste come precondizione per dare il via a un secondo piano di salvataggio da 130 miliardi di euro alimenta proteste di piazza contro quelle misure di austerity che da mesi i creditori internazionali cercano di far adottare (senza molto successo, finora), proteste che
vanno sempre più assumendo i tratti di una protesta anti tedesca, col rischio di una deriva nazionalista sempre più pericolosa e che ad alcuni fa venire i brividi pensando a paralleli storici con la Repubblica di Weimar che precedette in Germania l’ascesa del Nazismo durante le due Guerre Mondiali del secolo scorso, le posizioni tra chi vede in un default di Atene l’evento capace di scardinare l’intera eurozona e chi pensa che tutto sommato si possa sopravvivere è sempre più marcata.
Tra coloro che sembrano non comprendere a fondo i rischi di un default “disordinato” che induca la Grecia a uscire dall’area dell’euro si è schierata, a sorpresa, la Commissaria Ue Neelie Kroes dichiarando candidamente (salvo poi correggere il tiro) che l’Eurozona “può sopravvivere anche senza la Grecia”. Il che tecnicamente è probabile, ma va capito a che costo sopravviverebbe non solo la Grecia, che come ricordava una recente ricerca di Citigroup rischia di barattare la sua appartenenza ad un’area economica vitale per la sua economia con un modesto vantaggio “tattico” in termini di cambi (vantaggio cui corrisponderebbero peraltro un incremento di costi di pari entità che colpirebbe aziende e famiglie greche non in grado di beneficiare della svalutazione del cambio), ma anche l’Eurozona, se si pensa che la sola Bce ha in pancia almeno una cinquantina di miliardi di euro di titoli di stato di Atene (che per ora sono esclusi dalla ristrutturazione “volontaria” del debito pubblico che si cerca di far approvare dai creditori privati ma che in ipotesi di un default disordinato diverrebbero immediatamente carta straccia).
Tutto sommato però, è il pensiero di molti (pericolosamente sia in Germania, sia nel resto dell’Eurozona, sia nella stessa Grecia), l’euro potrebbe sopravvivere (e Atene pure) e quindi, perché no? Ad esempio, rispondono analisti e gestori di mezzo mondo, perché a quel punto la tentazione di imitare Atene e non mantenere le promesse sarebbe forte, sia per il Portogallo (che non a caso da qualche settimana ha visto aumentare i propri Cds, ossia il costo di assicurarsi contro l’ipotesi di un default, nonché i rendimenti sui titoli di stato e di conseguenza lo spread degli stessi rispetto ai Bund tedeschi) sia per l’Irlanda (che è sì finora il migliore tra i tre paesi che hanno ottenuto aiuti internazionali in questi ultimi due anni, ma che ha iniziato a far sapere che potrebbe avere bisogno di ulteriori fondi a fine 2013, quando i primi aiuti dovrebbero venire rimborsati).
A quel punto in gioco sarebbero molto più di una cinquantina di miliardi di euro di bond greci in mano alla Bce (e qualche centinaia di miliardi di crediti e di patrimonio detenuti da banche e aziende europee in tali paesi): il “rischio contagio” tornerebbe a far paura agli investitori e ci ritroveremmo nella stessa situazione già vista tra ottobre e dicembre, nonostante le misure “draconiane” già varate in paesi come l’Italia (ma anche la Spagna o la stessa Francia). Misure che, il punto resta sempre quello, da sole non bastano in assenza di una soluzione stabile della crisi che consenta al premio per il rischio richiesto dagli investitori di tornare a livelli pre-crisi, alleggerendo gli oneri finanziari che gravano sui bilanci pubblici europei e così facendo offrendo spazio per un rilancio della crescita. Crescita che però si nutre riforme in grado di ridare slancio al mercato del lavoro, alla produzione industriale, al settore dei servizi, all’innovazione.
Un terreno questo che inizialmente è cosparso di spine più che di petali di rosa, perché ogni volta che si prova a disboscare la selva di rendite di posizione e privilegi che decenni di crescita hanno consentito a decine di lobbies grandi e piccole di coltivare si incontra, come ovvio che sia, una forte opposizione da parte delle categorie interessate. Anche perché siccome “accà nisciuno è fesso” ognuno, greco, portoghese, irlandese, spagnolo, italiano, francese o tedesco che sia, tende a tutelare i propri privilegi almeno finché gli “altri” non avranno rinunciato ai propri, col rischio di estenuanti negoziazioni, continui bracci di ferro in parlamento su singoli provvedimenti normativi, scioperi, dimostrazioni, dichiarazioni a mercati aperti e chiusi di questo o quell’esponente politico e chi più ne ha più ne metta. Un clima da Vietnam che certamente non fa bene a nessuno tanto più che ogni tanto nel resto del mondo accadono fatti, come in queste settimane in Siria, che ci ricordano come oltre alle indecisioni della classe politica europea (e mondiale) i mercati siano influenzabili da esogene di tipo geopolitico, nonché da dati macroeconomici che rischiano di riflettare attese e timori in un gioco di specchi che si riflettono gli uni negli altri, con l’intervento spesse volte “laggard” (ossia a scoppio ritardato) delle agenzie di rating che complica il tutto rischiando di riaccendere ogni volta tensioni anziché contribuire a quietarle.
Insomma: un default disordinato della Grecia e l’uscita di Atene dall’Eurozona e dall’euro è un fatto grave, cui si resisterebbe ma che avrebbe ulteriori ripercussioni negative su un quadro già non brillante attraversato dalle economie del vecchio continente. A pagare sarebbero sempre i soliti, ossia le classi sociali e gli attori economici meno “protetti”; per evitare il tutto serve la capacità da parte dei leader politici europei di guardare al bene comune e non all’interesse particolare, la capacità di spiegarlo agli elettori, la capacità di negoziare dei patti credibili che siano nell’interesse di tutte le parti coinvolte e non solo di alcune di esse e la capacità poi di fare rispettare i patti. Già così ci vorrà del tempo prima che i postumi della crisi vengano riassorbiti, ma l’alternativa è ancora più dolorosa come il precedente storico dell’Argentina ha ampiamente dimostrato, nonostante in molti si continui a credere che siano possibili scorciatoie “nazionaliste” in realtà molto più pericolose della cura corretta (che però si sarebbe dovuta intraprendere per tempo anni fa, in una fase di espansione economica, e non ora, nuovamente in recessione). fonte
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