Scritto da: Domenico Astuti
Gregory David Roberts Shantaram (Neri Pozza, 2009, € 23,00, pp. 1165). Vi è mai capitato di aprire un libro, leggerne le prime pagine e avere l’impressione di aver spalancato una finestra; per poi sentire sul viso un’aria fresca, piacevole e primaverile? Un’aria che avevate dimenticato e quasi non ne ricordavate l’esistenza. Questo romanzo di una vita ci ha dato proprio questa piacevole sensazione. Ed anche le 1.165 pagine che abbiamo avuto davanti agli occhi – e che ci hanno un po’ spaventato: ma è da tempo che riteniamo che un romanzo non possa essere più lungo di trecento pagine se non vuole essere autoreferenziale, egotista e torrenziale – si sono volatilizzate con una leggerezza piacevole.
È raro in questo nuovo secolo, in cui la letteratura, il cinema e le arti in generale soffrono di una certa claustrofobia estetica, umana e morale, aver trovato questo romanzo “epico” australiano che racconta errori e orrori fatti e osservati da un piccolo essere umano fragile ma mai domo o sconfitto. In fondo, passando dal ruolo del fuggiasco ricercato, a medico improvvisato per poveri e indigenti in un faticente slum di Bombay, diventando un attore nel film di Bollywood, ad essere un amico di mafiosi e giungendo persino a trovarsi combattente con i mujahideen islamici in Afghanistan e in Pakistan, il nostro Shantaram non fa altro che un viaggio dantesco alla ricerca della riconciliazione con se stesso e dei suoi errori giovanili; del voler rimanere coerente verso il bisogno di credere in qualcosa e forse della ricerca disperata di una figura paterna. Cosa è in fondo un rivoluzionario degli Anni Settanta se non colui che ha “negato” il padre- sistema sociale, a volte lo ha ucciso e purtroppo, in qualche caso facendolo, ha ucciso se stesso?
Shantaram è un soprannome – che acquisisce il protagonista di questo romanzo autobiografico, che ci riporta direttamente al secolo scorso – che gli dà con grande intuizione la madre del suo migliore amico indiano – in lingua marathi vuol dire Uomo della pace di Dio. Infatti nelle ultime righe del libro (come nelle prime in cui ci svela la sua illuminazione improvvisa dopo tanto peregrinare , le parole da “riconciliato” che usa in prima persona sono: «Procediamo a piccoli passi. Rialziamo la testa e torniamo ad affrontare il volto feroce e sorridente del mondo. Pensiamo. Agiamo. Sentiamo… Che Dio ci aiuti. Che Dio ci perdoni. Continuiamo a vivere».
Ma chi è, e chi è stato, Shantaram o Slim o Gregory? È un leader studentesco di Melbourne dei primi anni Settanta che nel giro di due o tre anni vede crollare il mondo intorno a sé, le lotte si depauperano, gli muore un figlioletto, si separa dalla moglie, crolla in una crisi abbastanza simile a quella di molti altri nelle sue condizioni: depressione, eroina, qualche rapina. Viene arrestato, torturato e riesce ad evadere rocambolescamente. Da quel momento è un latitante, ricercato in tutto il mondo. Nel 1982 giunge a Bombay, diventa subito amico di Prabakar una guida indiana furba e abile che lo introduce nella vera città, conosce alcuni europei che vivono lì, che trafficano in vario modo e si incontrano in un locale, il Leopold ( una specie di Rick’s Café Américain di ” Casablanca ” ) e si innamora di Karla, una giovane donna svizzera molto bella, inquieta e con un passato doloroso. Resta in questa città per dieci anni e quasi subito va a vivere in uno slum ( un quartiere fatto di baracche di alluminio e pronte ad allagarsi al primo monsone ), apre una specie di ambulatorio gratuito per le prime emergenze, conosce il principale boss della mafia di Bombay, Abdel Khader Khan ne diviene amico e inizia a riciclare denaro sporco. In quel luogo alla fine del mondo, impara a conoscere la cultura indiana e le immani sofferenze della povera gente, affezionandosi a molti di loro e aiutandoli come può. Ma a causa della sua attività subisce la vendetta della più pericolosa maîtresse di Bombay: lo fa arrestare senza un reale capo d’accusa e resta in carcere, picchiato e maltrattato, per quattro mesi, finché grazie all’intervento di Abdel Khader Khan viene liberato. Inizia a lavorare per Khan, operando nel riciclaggio di valuta e nella contraffazione di passaporti e al contrabbando di armi a favore dei mujahideen afgani e durante una spedizione il gruppo è coinvolto in alcune azioni di guerriglia fino alle porte di Kandahar dove il suo padre-protettore Khan muore in combattimento. Lui resta ferito, verrà curato in Pakistan e stanco torna a Bombay convinto di dover lottare solo per ciò in cui crede e costruirsi una vita più tranquilla e onesta.
Con una linea narrativa semplice e immediata, ma anche con alcuni passaggi brutali un po’ ostentati e buttati lì con troppo distacco, Shantaram, non è solo una autobiografia scritta con grande maestria e leggerezza – e in molti passaggi empatica e commmovente – bensì è il tentativo del protagonista di recuperare o iniziare un percorso esistenziale di rinascita, verso la scoperta del vero se stesso e di cambiare il punto di vista di quei valori che piuttosto che farlo volare gli impediscono di comprendere. Lim o Shantaram o Greg è una persona semplice e qualunque, con molte timidezze e molte debolezze, è in fondo un buono, malgré tout, e si muove nella vita come potremmo muoverci noi nelle sue stesse condizioni, né eroe né mito; si barcamena tra contemplazione, disegno del destino che non può prevedere e il grande senso di colpa verso di sè e i suoi cari che ha deluso con i suoi crimini e la sua condotta. Come ha scritto qualcuno, Shantaram non è solo un romanzo, ma è un vero e proprio viaggio fatto grazie all’incredibile vita del protagonista.