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Grillo e la paura dell’uomo nero

Creato il 16 maggio 2013 da Albertocapece

resizerAnna Lombroso per il Simplicissimus

Un matto, come si diceva una volta, di quelli che nei paesi erano accettati tanto che difficilmente diventavano aggressivi e  violenti, che invece esce da un patologico solipsismo per prendere a picconate ignari passanti. Una sfrontata e avida puttanella,  più furba e determinata rispetto alle migliaia che battono sulle strade, importate per alimentare il mercato della schiavitù. Due volti dell’immigrazione irregolare, che aiutano a far uscire allo scoperto quell’indole malsana che progresso e ragione dovrebbero imbrigliare, nutrita e legittimata da nuove povertà e perdite di benessere, di quelle che, per non farci sentire inferiori, si rafforzano attraverso soprusi, sopraffazione, diffidenza.

E infatti che ci pensa Grillo che inventaria i casi di violenza dell’”uomo nero” e  che interroga il suo popolo: “Quanti sono i Kabobo d’Italia? Centinaia? Migliaia? Dove vivono? Non lo sa nessuno”.  E ancora: “Nessuno è colpevole, forse neppure Kabobo. Se gli danno l’infermità mentale – conclude – presto sarà di nuovo un uomo libero.  Chi è responsabile? Non la Polizia che più che arrestarli a rischio della vita non può fare. Non la magistratura che è soggetta alle leggi. Non il Parlamento, che ha fatto della sicurezza un voto di scambio elettorale tra destra e sinistra e ha creato le premesse per la nascita del razzismo in Italia”.

Oggi un milanese ha ammazzato i suoi datori di lavoro, perché “non li sopportava più”.  Quasi ogni giorno un italiano doc prende a botte la “sua” donna, la ammazza,  entra nel brand della prostituzione di extracomunitarie, spaccia, entra in una cosca, viene cooptato nel management di una cupola. Ma con buona pace  di Grillo non viene fatta una statistica dei misfatti bianchi aggiornata quanto il suo censimento.

Abbiamo già visto tutto questo, nel monotono avvitarsi su se stessa della storia, quando la Lega prima dipinta come forza popolare e folkloristica, blandita e vezzeggiata, costola   della sinistra (D’Alema), partito del popolo con leader sinceri (Di Pietro), non razzista (Bersani), invidiata e ammirata per il suo radicamento territoriale, mostrò apertamente, rivendicandola, la sua vocazione xenofoba, urlata a suon di slogan “fermiamo  l’invasione”, “nessuno zingaro ladro nei nostri quartieri”, “non vogliamo  il Corano a Milano”, ribadita ufficialmente con ordinanze di sindaci sceriffi e scatenata attraverso spedizioni punitive, e legalizzata, infine, come sistema di governo,   con leggi razziali e respingimenti.

Vale la pena di ricordare come allora un partito presente in Parlamento virò dalla xenofobia al razzismo, aggregando consenso intorno a una retorica e ad un “pensiero” che da un lato giustificava il rigetto e al tempo stesso evitava di essere bollata come razzista: “quelli di sinistra che ci accusano, fanno venire gli immigrati e li fanno dormire per strada”; “portare qui i negri è schiavismo”, fino a costruire una invettiva con ambizioni cultura liste e “antropologica”: i popoli  sono puntini di vari colori, a forza di rimescolarli, le tinte spariranno e rimarrà solo il grigio dell’uomo omologato.

In un documento ufficiale la Lega dichiara di avere una “visione differenzialista del mondo”, un concetto preso in prestito dalla Nuova Destra di Alain de Benoist, dai partiti xenofobi e neofascisti,  che “difende” la diversità culturale dalla globalizzazione, tanto da sostenere iniziative di abolizione del debito dei paesi poveri, in modo che “ognuno resti a casa sua”.

Grillo non ha nemmeno bisogno di questa impalcatura “ideale”, con lo stesso berciare fa leva sui nuovi bisogni, sulle nuove miserie, sulle nuove povertà,sul le nuove perdite, sentite anche come una sottrazione non solo di benessere o di privilegi, ma anche di identità di popolo. Può appoggiarsi a un umore tossico, nutrito di diffidenza, risentimento, paura, insicurezza. Può fare riferimento a una delle leggi sull’immigrazione più restrittive d’Europa, tanto da condannare che arriva all’irregolarità, fino alla trasgressione obbligata per chi non ha niente da perdere. Può – e ragionevolmente – irridere gli accordi e i crediti di integrazione, che dovrebbero essere rispettati da molti italiani. Può contare sull’indifferenza nei riguardi dell’altrui disperazione di chi sta scontrandosi con la sua, inattesa e sorprendente. Può farsi forza dell’impotenza del sistema della sicurezza a salvaguardare la legalità, in qualsiasi colore, con qualsiasi lingua, in qualsiasi settore venga elusa.

Non c’è da stupirsi: è stato in fondo il governo Prodi a iniziare le reazioni contro i “neocomunitari”, su sollecitazione  del Sindaco Veltroni, che, prima della dichiarazione di “emergenza” aveva promosso lo sgombero di oltre 6000 persone.

“Non è stata una gran violenza..li abbiamo fatti uscire prima dalle casarelle che si sono costruiti. Loro sono venuti fuori e noi gliele abbiamo incendiate, così non possono tornare”. Parlava così, sommessamente una donna di Ponticelli dopo una spedizione punitiva nella bidonville di rom e “clandestini” nel 2008, condotta contro gente appena appena più povera di lei, probabilmente, appena appena più marginale, appena appena più esclusa.  E oggi là, come a Rosarno, come in tutte le geografie dove arrivano raccoglitori di pomodori o di ciliegie, cacciatori di futuro, meno increduli di noi e ormai quasi altrettanto disperati, c’è il rischio che si consumi un quotidiano delitto contro   la civiltà, la solidarietà, c’è il pericolo che infami predicatori facciano proselitismo di disumanità.


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