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Romain lo Svizzero non si è messo la crema solare per tutto il viaggio perché non gli piace. Il risultato è che gli si sta squamando la faccia come ad un Visitor. Non ha neanche messo il Labello e le sue labbra sono tumefatte. Per di più, qualche giorno fa è caduto su una roccia maciullandosi un dito che è ormai in cancrena. Non l’avessi visto integro non più di dieci giorni fa penserei che sia un lebbroso. Si parte alle 7.30 per l’ascesa alla vetta. Sono poche centinaia di metri di dislivello, ma lo zaino le fa sembrare eterne. In cima al monte Trefoten abbiamo una vista a 360 gradi sui ghiacciai che si gettano nell’oceano. C’è poi il dubbio sulla via da prendere per continuare il nostro giro. François esplora l’orizzonte come Mosé e poi sentenzia: “di qua”. Lo seguiamo per un dirupo pietroso e dopo pochi metri Stefanie fa un doppio salto carpiato con avvitamento e atterraggio sulla faccia. Pensiamo al peggio, ma si rialza da sola anche se dolorante e con una serie di escoriazioni sulla fronte. Ora può fare concorrenza con Romain lo Svizzero che – nonostante qualche visibile problema di stabilità – è riuscito a scendere senza maggiori problemi. Di fronte a noi abbiamo un immenso ghiacciaio e François decreta l’incordatura causa rischio crepacci. La mia cordata è composta da Ben e Romain. Ben procede a passo di lumaca, mentre lo svizzero quasi corre per poi bloccarsi e riprendere a correre. Per evitare il tira-e-molla decido di tenere la corda ben tesa così da rallentare Romain. Mi sembra di avere un cane al guinzaglio. Finito il ghiacciaio c’è un altro dirupo roccioso e Stefanie sembra traumatizzata. Con molta fatica arriviamo ad un punto quasi verticale in cui decidiamo di calarci con la corda. Scendo per primo per aiutare gli altri a scendere. Con i più restii sono costretto a tirarli giù a forza. Con gli zaini uso la stessa tecnica ma con risultati peggiori perché mi sfuggono di mano e fanno un volo di 50 metri. Il fucile anti-orso non apprezza. Verso le sei di sera troviamo un posto per dormire. Non è il migliore ma nessuno ha voglia di continuare. Abbiamo camminato otto ore che si sentono tutte. La mattina è fredda e umida. Il solito torcicollo in formato famiglia si è frapposto tra me e il sonno. Ben non ha russato come al suo solito, indice che anche lui ha dormito poco. Quando si toglie la mascherina dagli occhi i dubbi sono conformati: sembra un vampiro. Il programma della giornata rimane invariato rispetto agli ultimi dieci giorni: si cammina. Tutta una serie di piccoli dolori confluiscono gli uni sugli altri come gli affluenti di un fiume in piena: caviglie, polpacci, ginocchia, fianchi, schiena, spalle, nessuna parte del corpo è risparmiata. La giornata passa tra i soliti panorami da sogno, con tanto di piccola gara di sci su un nevaio. Per la notte troviamo un piccolo angolo di paradiso vicino ad un lago. Al momento di montare la tenda Ben ed io abbiamo uno dei nostri momenti di vecchia coppia inacidita: io voglio terrazzare il fondo per la tenda mentre lui è ben contento che gli spigoli delle pietre appuntite gli si conficchino tra le vertebre mentre dorme. La soluzione dell’enigma è salomonica: io lavorerò sulla mia metà della tenda (quella destra) e lui la lascerà così com’è. Per il resto seguiamo degli automatismi collaudati. Io mi occupo dei picchetti mentre Ben cerca delle grosse pietre (odia sporcarsi le mani). Ne approfitto per imparare qualche parola tecnica in francese: i picchetti si chiamano sardine, mentre i pali della tenda si chiamano balene. L’immaginario è piuttosto marino, ma la cosa non mi sorprende. Il francese è una lingua in cui vagina è maschile e cazzo è femminile. Visto che è presto e c’è un bel sole, c’è tempo per un bagno nel lago. Siamo in quattro a sfidare la sorte. Oltre a François, Ben e me si aggiunge anche Romain lo Svizzero che per la prima volta tenta un contatto ravvicinato con l’acqua. Mai avrei pensato che mi sarei ritrovato a fare un bagno in un lago groenlandese ai piedi di un ghiacciaio. L’acqua è meno fredda del previsto, il bagno è quasi piacevole. Ben esce dall’acqua con una frase storica:”la sortie n’est pas trionfale, ma bite est plus courte de 10 cm”. La giornata seguente doveva essere dedicata a una “petite balade”, una piccola passeggiata senza zaino. François aveva indicato un itinerario sulla carta e tutti – ignari di quello che ci aspettava – abbiamo acconsentito. La passeggiata si è presto rivelata un calvario di rocce acuminate e passaggi a fior d’acqua su laghi gelati. Alla prima discesa difficile, Romain lo Svizzero decide di scivolare sul sedere aprendosi uno squarcio nel pantaloni a livello delle chiappe. Per far muovere Stefanie, invece, François la fa sedere dietro di sé e scendono assieme come su una slitta. Il giro continua con un’ascesa per una valle stretta e innevata, che sbuca su un altipiano. Da lì la strada sembra facile e diretta, ma si rivela presto un labirinto di creste rocciose e falesie a strapiombo. Avanziamo lentamente camminando su massi o sulla neve. Il GPS ci mantiene informati sulla lentezza del nostro avanzare. Le distanze sono date in linea d’aria. Per coprire duecento metri ci vogliono due ore. Mi sembra di essere Achille e la Tartaruga nel paradosso di Zenone. A fine giornata avremo fatto poco più di dodici chilometri in poco meno di dieci ore. Nel frattempo i miei piedi sono diventati dei rivoluzionari maoisti. Penultimo giorno di marcia. Ben ed io mostriamo un raro affiatamento nello smontare la tenda. Si parte verso le 8.30 (oggi François è stato clemente e il gallo ha cantato tardi) e sembra di essere in vacanza: zaino mezzo vuoto, strada in discesa e terreno soffice e morbido. Manca solo un mojito. Copriamo i dieci chilometri che ci separano dalla costa in un paio d’ore e appena ci fermiamo per mangiare siamo assaliti da un’armata di zanzare che riescono addirittura ad entrare nella zanzariera che mi sono messo sulla testa (oggettino leggero e anonimo ma di grande utilità, benché non proprio esteticamente pregevole). Impossibile anche solo pensare di poter fare un pisolino: il rumore nelle orecchie è quello di uno stormo di cacciabombardieri in rotta per Pearl Harbour. Ci spostiamo poco lontano per piantare le tende. Quando sto già pensando ad una bella pennichella al riparo dalle zanzare François punta il dito indice verso nord-ovest e siamo già ripartiti per un’altra “petite balade”. Costeggiamo la spiaggia passando qualche torrente. Il paesaggio è quella famosa tundra nordica composta da muschi e licheni tanto cara al mio sussidiario delle elementari. Il mare scintilla di una luce intensa e gli iceberg all’orizzonte sembrano immobili. Camminiamo ognuno per sé, uno a fianco all’altro, a velocità leggermente diverse. Mi sembra di essere in una scena del “Fascino discreto della borghesia” di Boñuel. Non so perché ma ho in testa il ritornello di una stupida canzone televisiva che non sento da secoli: “ahi ahi ahi se faccio un figlio, ahi ahi ahi lo chiamo Emilio, sempre meglio di Basilio, se è una femmina non so”. Le zanzare ci aspettano per colazione. Per tornare a Ittoqqottoormiit seguiamo la spiaggia e camminiamo a fiancho a pezzi di banchisa che non si sono ancora sciolti. Sono alti tre o quattro metri. Tra qualche settimana il mare ricomincerà a gelare e si potrà attraversare il fiordo a piedi. Nell’intenzione iniziale l’ultima tappa doveva essere una passeggiata piatta e facile. La realtà è resa più complicata e bagnata dal fatto che tutti i ghiacciai della zona si sono dati appuntamento per rilasciare acqua proprio oggi. I torrenti che attraversiamo sono uno più grosso e profondo dell’altro. L’acqua arriva prima alle caviglie, poi alle ginocchia e alla fine devo togliermi i pantaloni perché arriva quasi alla vita. Quando vediamo Ittoqqottoormiit, con i suoi 400 abitanti, mi appare come la sintesi della mondanità. François ha il fucile anti-orso a tracolla e Ben ed io abbiamo il passo stanco del guerrigliero. Sopra di noi passa rasoterra l’elicottero che fa la spola verso l’aeroporto. Sembra di essere in “Apocalypse Now”. Alla guesthouse, dopo una doccia riparatrice, ci stendiamo sul divano facendo commenti maschilisti sulle alzatrici di peso delle olimpiadi e ci appassioniamo per la medaglia di bronzo del doppio misto di badminton che la TV danese ci propone ad libitum perché è la loro prima medaglia. Si cena a trota artica al forno con contorno di patate. La metamorfosi è ormai completa. Solo la barba lunga, le facce abbronzate e i vestiti da montagna ricordano le due settimane passate in tenda. Il giorno dopo sveglia all’alba per prendere l’elicottero. Tutta la comunità danese di Ittoqqottoormiit è riunita per gli addii. Ci sono il poliziotto in partenza e il direttore delle poste che sta aspettando uno scienziato pazzo che ha passato mesi nel mezzo della Groenlandia per misurare l’innalzamento terrestre (voci di corridoio dicono che la Groenlandia si alzi di 3 cm all’anno). Il viaggio in elicottero è perfetto per ripassare il circuito fatto negli ultimi giorni. All’aeroporto di Constable Point guardiamo le interessantissime gare dell’eptatlon e una famiglia di inuit che si abbuffa di cibo spazzatura: la ragione dell’obesità di massa è presto spiegata. Il volo per Reykjiavik parte in orario e sorvola tutta la costa est. Passiamo sopra immensi ghiacciai che affluiscono come fiumi di lava, ognuno mantenendo la propria traccia formando delle curve parallele come corsie d’autostrada. Le dimensioni sono fuori proporzione: ghiacciai lunghi centinaia di chilometri con crepacci che devono essere alti come condomini. Le considerazioni sulla piccolezza umana e sulla grandezza della natura si sprecano mentre mangio un ottimo panino al tonno offerto dalla gentilissima hostess islandese che sembra uscita dalla serie TV sulla Pan Amdegli anni 60. Il resto è un banale rientro su Parigi, con treno finale per Zurigo in immersione completa nel turismo agostano. Della Groelnadia restano già i ricordi.
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