Come un vecchio polmone, stanco di tanti affanni, il motore procedeva con un rosario sommesso di sibili e brontolii. I fari sfarfallavano, si offuscavano a momenti, come un paio di occhi troppo stanchi per imporsi alle palpebre. O forse erano davvero gli occhi a perdere colpi, gli occhi del trentacinquenne alla guida dell’auto. Si fermò a fare benzina, in un self service immerso nel latte nero di quella notte, ai bordi di una strada extraurbana desolata. Un’altra automobile illuminò l’asfalto, a velocità irregolare, mantenendo a stento la propria corsia; finestrini aperti, un remix di un classico della disco a massimo volume. Dal lato del passeggero un ragazzo dalla bocca deformata in una risata sguaiata, con la testa e le braccia fuori, e una bottiglia nella mano. Si accorsero di lui. Passando gli gridarono qualcosa, qualcosa che evidentemente trovavano molto divertente. La berlina si allontanò come era apparsa, zigzagando. Il trentacinquenne trovò la scena ridicola, ma non ridicola come una battuta divertente, ridicola come la scena di uno che fa una battuta che non fa ridere nessuno. Ripose la pistola del carburante, si guardò intorno per trovare un angolo dove urinare, poi realizzò che non c’era nessuno da cui nascondersi; tirò fuori il pene e pisciò lì, nello spazio tra la pompa e la sua auto, immerso nella placenta nera della notte appena rischiarata dalle luci della stazione di servizio. Verso la fine indirizzò il getto sul pneumatico, e si stupì del rumore prodotto dalle ultime gocce sulla gomma tesa della ruota.
Estratto mnemonico del giovane uomo, n°1: lo sfilare lento delle case basse, case di periferia, una periferia benestante. La cornice dell’inquadratura è quella di un finestrino, il finestrino posteriore di una Mercedes, un vecchio modello ma tenuto bene, color bianco classico, anche se per quel bambino è color schiuma di cappuccino, il cappuccino che sente in bocca mischiato alla menta del dentifricio. L’auto la guida il padre, il tragitto è quello da casa a scuola, la scuola elementare che il bambino del finestrino frequenta. Poi, come ogni giorno, il padre proseguirà fino all’ufficio in cui lavora. Il bambino guarda dal finestrino le case basse sfilare, e si chiede perché egli sia così triste.
Un ombra attraversò la strada, troppo veloce per essere elaborata e riconosciuta dal lobo occipitale. Il trentacinquenne istintivamente rallentò, si guardò intorno e poi accese l’autoradio. Dalle casse venne il suono di un riff di chitarra affogato nell’overdrive, un sound che gli sarebbe piaciuto da ragazzo, o forse quella canzone era davvero una di quelle che ascoltava da ragazzo.
Estratto mnemonico del giovane uomo, n°2: one time a thing occured to me – i capelli di lei, all’altezza della spalla destra, per una frazione di secondo, poi solo bianco, il bianco del lenzuolo, per un battito di ciglia, poi di nuovo i capelli – What’s real, and what’s for sale? – no, deve muovere solo il bacino, non tutto il corpo, altrimenti avrà presto l’affanno, lo sa, lo ha simulato mille volte – Blew a kiss and tried to take it home – ecco, ci siamo, ora riesce ad avere lo sguardo fisso sulle ciocche - It isn’t you, isn’t me – è lucido, lucidissimo, non è la mente il problema, ma il corpo – Search for things that you can’t see – ha provato a toccarle il clitoride, come ha visto fare nelle videocassette porno, ma coordinare le spinte pelviche diventa un casino - Going blind, out of reach – potrebbe chiederle di girarsi – Somewhere in the vaseline – ma non ne ha il coraggio – Two times and it has rendered me – è quasi meno eccitante delle seghe - Punch drunk and without bail – anzi sicuramente – Think i’d be safer all alone – di manovella sarebbe già venuto da un sacco di tempo – Flys in the vasoline we are – invece così non sente niente, sarà il preservativo – Keep getting stuck here all the time – spera di non venire proprio durante la traccia 4 di quel cd, “Interstate Love Song”, sarebbe davvero una cosa sdolcinata, patetica, ipocrita – You’ll see the look and you’ll see the lies – quella ragazza non le piace, ma è stata la prima e l’unica a dirgli esplicitamente che avrebbe fatto volentieri sesso con lui – You’ll eat the lies, and you will – a farglielo diventare duro non è stato l’odore della sua pelle, che lo lascia indifferente, ma l’idea insperata che lui possa apparire attraente a qualcuno, e che magari anche la sua balbuzie da ansia sociale possa sembrare una caratteristica sexy che attira belle ragazze disinibite, come accade a Woody Allen nei suoi film.
Il trentacinquenne faticava a tenere gli occhi aperti, aveva bisogno di un caffè. Accostò l’auto sulla destra. Dopo essere sceso si strofinò energicamente i palmi delle mani sulla faccia per un paio di secondi. Poi guardò nella direzione che si stava lasciando alle spalle; si accorse che stava sorgendo il sole. Voltò la testa nella direzione opposta e gli parve di vedere in lontananza dei piccoli puntini tra il giallo e l’arancione: illuminazione urbana. Rientrò in auto, rinfrancato dalla prospettiva di prendere un caffè in una città di cui ignorava il nome, per un attimo il suo sguardo si posò sul sedile del passeggero, o meglio, su alcuni depliant poggiati sul sedile, volantini che pubblicizzavano una clinica privata, una clinica lontana centinaia di chilometri dal trentacinquenne e dalla sua auto.
Estratto mnemonico del giovane uomo, n°3: la sensazione della camicia bagnata di sudore dietro la schiena, l’intonaco regolare del soffitto, la mancanza di voglia ed energie per alzarsi dal letto e per prepararsi la cena. Poi lo squillo del telefono, violento e pungente. «Salve sono il dottor [nome e cognome non memorizzati] della clinica NeuroErm; lei ha compilato il form sul nostro sito per avere delucidazioni riguardo il servizio di riprogrammazione emotiva dei ricordi che offriamo presso la nostra struttura, giusto?»
«Ah, sooo-so-lo che…»
«La disturbo? Ha perfettamente ragione, l’orario non è dei più consoni, la richiamo domattina?»
«No… no, vaaa-va bene, solo che m-m-mi aspettavo u-u-na risposta via m-m-ail»
«Preferiamo parlare di persona con i nostri potenziali pazienti, riteniamo che sia doveroso da parte nostra, vista la delicatezza dell’argomento e, me lo faccia dire, le tante illazioni sul nostro conto… c’è tanta confusione sul nostro metodo, se fa una ricerca in rete, e presumo l’abbia già fatta, leggerà di cose completamente prive di fondamento; sostengono che facciamo lobotomia farmacologica, che creiamo danni cerebrali irreversibili o, nella migliore delle ipotesi, che siamo dei ciarlatani. La verità è che il protocollo, che non abbiamo inventato noi, è già in uso da anni in due cliniche private di Dubai, e noi, mi conceda l’immodestia, abbiamo perfezionato il metodo avvalendoci degli ultimi sviluppi della diagnostica nucleare…»
«In co-co-sa co-co-nsiste? Io non so se ho ca-capito be-be-ne…»
«Certo, le spiego: saprà che i nostri ricordi non aleggiano come fantasmi nel nostro cervello, ma sono legati a specifici neuroni, grazie alla tomografia ad emissioni di positroni ad alta risoluzione riusciamo ad individuare, nel soggetto, le singole cellule nervose responsabili dei ricordi, anche di quelli più dolorosi. Individuate le allocazioni neurologiche delle memorie procediamo con una, mi passi il termine, cosmesi farmacologica, ovvero inoculiamo, in maniera pilotata, degli pseudo-neurotrasmettitori. Queste molecole si vanno a legare ai recettori delle cellule mnemoniche, ma non occupano tutti i recettori, solo alcuni, quelli che sperimentalmente abbiamo individuato come responsabili delle emozioni negative. Quindi non si preoccupi, sgombriamo il campo dalla prima e naturale preoccupazione; non perderà la memoria, semplicemente non sperimenterà angoscia e ansia quando ricorderà un evento traumatico.»
«Non penso di a-a-vere dei traumi, te-te-mo di a-averle fatto pe-pe-rdere tempo…»
«Ma quale perdita di tempo, solo per qualche informazione, poi riguardo ai traumi, beh, evidentemente ho scelto il termine meno appropriato; la nostra è una terapia rivolta a tutti, che migliora la qualità della vita di chiunque, io stesso l’ho rifatta due mesi fa.»
«Rifatta?»
«Giusto, mi sono dimenticato di dirle questo… vede… i neuro-trasmettitori di sintesi che utilizziamo vengono riconosciuti dal nostro corpo come quelli endogeni, ma in realtà sono chimicamente differenti, ed evitano la naturale ricaptazione sinaptica, ma dopo un po’ di tempo vengono comunque riassorbiti, un tempo variabile da soggetto a soggetto, chi un anno, chi due, e si ritorna alla situazione di partenza. Non è un intervento irreversibile, nonostante quello che dicono certi tromboni che sono rimasti ai salassi e al bromuro. Mi conceda nuovamente la licenza… noi facciamo un lifting della memoria, il nostro è un intervento estetico. Ma ora sto parlando troppo, la lascio ai suoi impegni, le volevo solo chiedere un paio di cose: per caso soffre di epilessia, di schizofrenia o è affetto da cardiopatie?»
«No»
«Le è stata diagnostica qualche forma di depressione, anche lieve?»
«No, penso di no, cioè, non mi so mai so-soo-sottoposto a… No»
«Peccato…»
«Scu-scusi?»
«No, ha ragione, non mi fraintenda, è solo che in caso di depressione il costo dell’intervento è per metà coperto dal servizio sanitario nazionale, ma non si preoccupi; qualora non abbia la possibilità di saldare tutto subito abbiamo dei vantaggiosi piani di rateizzazione, glieli illustreranno nel dettaglio i nostri colleghi del settore amministrativo quando verrà a trovarci… diciamo lunedì? Lunedì mattina è libero?»
«Ma io no-non so, voglio pe-pensarci p-p-prima»
«Ma certo! Non volevo mica fissarle l’intervento, era solo per fare due chiacchiere… che come avrà capito è la mia attività preferita… dopo quella di medico, s’intende. Si prenda un giorno di vacanza, le mostriamo il nostro lavoro, magari si confronta con i pazienti che hanno già scelto di affidarsi alle nostre cure, e qualora decidesse di non diventare uno di loro… beh… si è fatto una passeggiata nella più bella campagna d’Italia, che da sola basterebbe a migliorare l’umore di chiunque!
Parcheggiò in diagonale in mezzo a delle auto disposte in fila. Cercò degli spicci nel vano portaoggetti, ma trovò solo una batteria da 1,5 volt, una di quelle che se schiacci le estremità forniscono la percentuale di carica residua. Entrò nel piccolo bar, un bar sprovvisto di tavoli, con il registratore di cassa ad un’estremità del bancone. Il trentacinquenne ordinò il caffè, e posò la pila sul poggia monete sponsorizzato da una nota marca di birra.
«Non ho spicci, le posso dare questa, è quasi completamente carica» disse, e solo dopo si accorse di non aver balbettato. L’uomo dietro il bancone, un uomo sovrappeso con dei grossi baffi neri fece un cenno sdegnato con la mano. Caricò con gesti decisi la macchina, e nell’attesa che si riscaldasse chiese al trentacinquenne, con un tono per nulla cordiale, dove aveva intenzione di andare conciato in quel modo.
«Non lo so» fu la risposta.
Estratto mnemonico del giovane uomo, n°4: odore di assenza di odori, di ogni cosa presente sterilizzata. I suoi abiti infilati in una busta ermetica e portati via, gli oggetti, invece, attendono la loro destinazione in una vaschetta di plastica vicino alla finestra. Freddo. Ha la pelle d’oca; può vedere la pelle alla base dei peli ergersi a piccole colline, la pelle delle gambe e delle braccia, parti del corpo che il camice che gli hanno chiesto di indossare lascia abbondantemente scoperti. È da solo, steso sul lettino, nell’incavo del gomito destro un batuffolo di cotone tenuto da una striscia adesiva a tamponare il foro del prelievo. Esami preliminari. Non lo sa. Non lo sa cosa sta facendo. Non lo sa cosa vuole fare. A trentacinque anni, nel mezzo del cammin di sua vita, a sentirsi nulla, ad attendere, forse, di sentirsi più nulla di ora. Per rilassarsi si guarda attorno; è così che immagina l’infermeria di un carcere, se non fosse per l’assenza di sbarre alle finestre, anche lì, al pianterreno, e mentre lo pensa è già fuori, rientra nella stanza solo con un braccio, per prendere dalla vaschetta le chiavi della macchina, e poi si dirige verso il parcheggio.
I carabinieri lo trovarono seduto per terra, in stato catatonico, davanti alla saracinesca abbassata di quello che un tempo fu un negozio di dischi, ma il trentacinquenne lo ignorava, come continuava a ignorare il nome di quella cittadina. Un giovane appuntato gli si avvicinò lentamente, sorridendo, con le mani in vista, come a rassicurare un pericoloso squilibrato. Al trentacinquenne scappò un sorriso; non aveva fatto nulla, era solo un uomo con un camice d’ospedale che non sapeva cosa fare, e dove andare. La volante partì sgommando; e nonostante la velocità al trentacinquenne sembrò che le case basse che vedeva oltre il finestrino posteriore, così simili a quelle del quartiere in cui era cresciuto, scorressero al rallentatore, e guardandole si chiese perché, perché bisogna per forza essere felici?