“Una città non si spiega.
Ti siedi, la guardi
il tempo scorre
lei racconta.Tu ascolta.”Giuseppe Divaio per The Freak – Foto in alto
Di canna, lo zucchero. E lo Slash è come il salotto di casa. Perché ci sono caffè e caffè: quelli con gli amici vanno presi negli ambienti caldi, che ti fanno venire voglia di restare.
“Capì Sabri? Chi fa altro può sempre fare anche cultura. La cultura ti apre un mondo che, fino al momento in cui non la incontri, non conosci, rappresenta sempre una svolta. Non bisogna avere una predisposizione particolare, basta essere curiosi e ti ci avvicini. Con il tempo mi sono reso conto,
anche grazie ai riscontri che avevo da chi vedeva le mie fotografie, che poteva diventare la mia vita. In fondo, lo è sempre stata. Fare arte visiva è difficile perché è un percorso più lungo per arrivare ad incontrare un pubblico vasto. Ho avuto la fortuna grazie ad Instagram di essere scoperto. Il mio progetto, Napoliphotoproject, è stato inserito tra gli utenti suggeriti ed avendo questo social un bacino di utenza straordinario, ti lascio immaginare a quante persone sia arrivato.”
Non mi serve immaginare. È il motivo per cui mi ritrovo a trascorrere un pomeriggio di pioggia in un caffè napoletano con uno sconosciuto. Mi è bastato guardare Napoli da una bancarella di fragole a tre euro a cassa. Sono sicura di aver davvero sentito “Favurit”, che non è traducibile dal dialetto napoletano senza alterarne l’accoglienza che porta con sé.
Il tutto, comodamente seduta in una casa romana. Ma è Giuseppe a raccontarmi i retroscena del mio viaggio senza spostamenti.
“Con le mie fotografie, sono arrivato un po’ in tutto il mondo. Voglio far conoscere l’anima di Napoli, anche a chi ci vive. Mi concentro su quelle che sono le reali tematiche visive della città. E poiché arte chiama arte, ho iniziato anche un percorso di scrittura. Ho iniziato accompagnando le foto con una didascalia che raccontava la storia del soggetto raffigurato, ora il progetto sta diventando più corposo e sistematico. Non dico che sia stato naturale, mi sono fatto da solo ed anche per questo vorrei in futuro insegnarlo ad altri. Avendo una passione molto forte, l’ho dovuta unire ad una tecnica. Posso avere il miglior occhio del mondo, ma se non so come fare a fermare quel momento, sarei un talento sprecato. Ho studiato autonomamente fotografia, così per la scrittura, mi sono formato leggendo Hemingway: parla delle banalità, ma in modo straordinario. Prende la sua storia e la mette davanti ai miei occhi. Mi sono dedicato al cinema, ho curato la regia di alcuni progetti, questo ha dato la possibilità di conoscere e farmi conoscere. Alcune scuole hanno chiesto le mie foto e che io raccontassi la mia storia ai loro alunni. Insomm… è un bel periodo! Questo progetto mi ha restituito la vita che io avevo un po’ smarrito, sono rinato a 29 anni. Ho trovato una foto di Ischia che scattai nel 1992 e mi sono stupito pensando che avrei potuto scattarla allo stesso modo anche oggi.
Avevo una predisposizione già all’epoca, ma sfortunatamente per me nessuno se n’è accorto. È questo il mio rammarico: avrei, oggi, molta più esperienza. Per il disegno, invece, già i dirigenti scolastici se ne erano accorti. Eppure ho abbandonato del tutto la matita per una quindicina d’anni, questo mi ha portato ad avere un buio dell’estro e di esperienze. Ho vissuto una vita molto frenetica e divertente, ma gli ultimi quattro sono stati i migliori. Roma è stata fondamentale: se hai sensibilità artistica, lì si mostra. Poi, come ami tu dire tu, ho rischiato, e lo faccio tutt’oggi. Punto tutto su di me, non penso di avere nulla oltre me stesso, quello che voglio fare e riesco a fare e trasmettere. Quello che mi è stato dato, lo sto restituendo, raccontando la mia città dagli occhi di chi ci è sempre stato, di chi ci ha vissuto e probabilmente ci morirà.”
- Quindi hai deciso di restare? Non sarai tra gli artisti che da Napoli traggono ispirazione, ma poi si fermano ad ammirarla solo da lontano?
“Ho pochissime certezze nella vita, una di queste è che io resto qua. Restare, attenzione, non significa fermarsi. Semplicemente questa è la mia base. Tutto parte dalla base, posso stare anche fuori, come ho già fatto, ma poi tornare e sapere che in questo posto c’è qualcosa che mi aspetta, in ogni caso. E Napoli è l’inizio non solo dal punto di vista artistico, ma dal punto di vista della vita.Venendo da un quartiere difficile, ho vissuto il doppio dei miei anni. I percorsi che ho dovuto affrontare sono stati per me una palestra, nonché origine e causa delle mie scelte. Sono stato per un po’ a Roma e al mio ritorno cercavo di incanalare la mia fotografia in un progetto: la soluzione era sotto i miei piedi, era la mia città. Ho iniziato a fotografarla, ad immortalare degli scorci poco inflazionati, eppure di rilevanza storica, artistica, culturale straordinaria.”
- Napoli è nota a tutti, ma conosciuta da pochi. È visitata, ma per attraversarla ci vuole altro. Un occhio allenato all’evidente, ma non visibile. Alle rughe di ‘On Mimì, ad esempio.
“Negli ultimi anni, che hanno accompagnato il mio percorso artistico e che hanno cambiato la mia filosofia, dico che esiste sempre un altro punto di vista. Se ti metti davanti al tavolo, lo vedi ad altezza media, da sotto lo vedi gigante, imponente, se sali ci stai camminando sopra, lo calpesti. Per lo stesso oggetto hai tre punti di vista che potrebbero diventare cento, in base al tuo umore o interesse scegli quello che è migliore per te.
È l’allegoria della caverna di Platone, abbiamo paura di scoprire l’esterno. Solo che lui diceva che noi siamo destinati a restare nella caverna, in realtà… “tu come hai fatto?” nel momento in cui la vedi, di’ agli altri come hai fatto, dai loro gli strumenti. Noi abbiamo paura di vedere le cose in modo diverso. Ecco il tuo “rischio”. Se senti di perseguirlo, non ci vedo tante difficoltà. Questa città ti dà la possibilità di scoprire cose nuove tutti i giorni. Ogni volta che passo per via dei tribunali, c’è qualcosa che la volta precedente non avevo visto. Si apre, si lascia scoprire, devi lasciare al tuo occhio la possibilità di vedere e di sorprendersi.”
- Ed è anche una città che si lascia molto vivere. È impossibile scindere Napoli dalla sua umanità.
“Non è un caso. Non è che qualcuno ha deciso che a Napoli la gente debba essere più calorosa. Noi veniamo da infiniti problemi e negli anni abbiamo sviluppato una sensibilità maggiore, perché è nelle difficoltà che una persona cresce, si sviluppa. Se siamo abituati ad affrontare tanti problemi, allora siamo più pronti e predisposti a fare del bene. Io quella umanità voglio mostrare. Racconto dell’uomo, motore di tutto anche se faccio una foto a San Pietro, nato da un pensiero dell’uomo e dalle mani di altri. Ci sono poche composizioni che danno un senso di natura.”
- C’è lo scatto che vorresti fare ma non puoi?
“Lo scatto dei miei anni passati. Ho difficoltà a farli venire fuori. Bresson amava dire che il migliore scatto sarebbe stato il prossimo. Io sono pronto per qualsiasi cosa mi arrivi.”
- E se avessi solo cinque minuti per far vedere un posto, dove porteresti il fortunato?
“A mare vado a Posillipo. Villa Volpicelli, sotto ci sono gli scogli dove tanti napoletani vanno. Il mare è profumato. Ogni tanto ci sono pescatori che ti fanno mangiare un riccio. È straordinario, dolce. Quando mi tuffo in quel posto, chiudo gli occhi. Scendo giù, risalgo e apro gli occhi. Mi si prospetta tutto il golfo di Napoli, puoi rivederlo solo tu venendo dal buio, da sotto, dall’acqua.”
- ‘Napul’è mille paure, Napul’è mille culure’. Per te cosa significa?
“Napoli è mille paure… sono forse le occupazioni che abbiamo subito. Questa è però anche una città che ci ha insegnato tante culture: È mille culure perché è un inguacchio. È una città che accetta tutti.”
- La morale che si potrebbe trarre dal racconto delle tue foto?
“Il loro unico obiettivo è mostrare Napoli e descriverla, senza avere la presunzione di voler cambiare nulla. Le morali… non mi appartengono. Tutto sembra dire ‘guarda, io sono qua’. Io mi limito ad ascoltare, semplicemente”.
Nel semplicemente che conclude il nostro pomeriggio, ritrovo l’avverbio che descrive una bella persona. Ho conosciuto Giuseppe Divaio, l’artista, il 23 gennaio 2015. Penso di aver conosciuto Giuseppe Divaio, l’uomo, molto prima, in ogni sguardo che, negli incroci d’occhi, sembra regalarti un pezzo di sé. Che, senza pretese, ti guarda. Sei là.
Fuori ormai è buio e piove. A piazza Dante le note di Pino Daniele si confondono con quelle della pioggia. “La banalità, in modo straordinario”.
Arrivo alla stazione e prendo il mio treno di corsa. Ripenso a quel calore che mi faceva venire voglia di restare.
Chissà che non sia quello il segreto.
A cura di Sabrina Cicala.