14 giugno 2013 di Francesco Danieli
La Strega di Albrecht Dürer. Incisione su rame, 1500 c.ca.
I miei ricordi di bambino, cresciuto in campagna all’aria aperta, o scorrazzando con gli altri amichetti tra corti e viuzze del centro storico di Galatone, sono tuttora parte integrante del mio vissuto umano e della mia sensibilità. Uno stile di vita, quello che ho avuto la fortuna di apprendere dai miei nonni, che mi continua ad offrire spunti di onorevole sopravvivenza in questi difficili tempi di crisi. Il mondo popolare e contadino – quello in stile Ottocento – in cui ho vissuto i miei primi vent’anni, credo sia tramontato definitivamente alla fine degli anni ’90 del secolo scorso. Proprio i miei nonni, che a stento possedevano la licenza elementare, conoscevano la Divina Commedia a memoria e le tabelline a menadito (cosa che a me riesce difficile ancora oggi).
Avevano favorito il progresso negli studi di tutti i figli e una speciale maturità umana, culturale e religiosa li aveva portati a superare usi arretrati e pratiche popolari primitive, ancora in auge, anche riguardo alle cure mediche. E non sembri scontato questo appunto! Molti miei compagni di gioco, invece, si guardavano bene dal ricorrere al dottore. Dopo una brutta caduta non era l’ortopedico ad intervenire, ma la donna di paese, esperta nell’aggiustare l’osse spinnulate (le ossa lussate). Così contusioni, lussazioni, distorsioni e in alcuni casi anche fratture venivano curate da guaritrici, custodi di rimedi tramandati di madre in figlia, spesso con ripercussioni gravi sulla salute dell’infortunato e con danni permanenti ai suoi arti. Stecche di legno e fasciature strettissime impalavano il malcapitato, peggiorando di frequente la situazione. Ancora alla guaritrice si rivolgevano le mamme per risanare i più piccini dalla comunissima infestazione da vermi intestinali, che noi oggi sappiamo esser provocata dagli ossiuri.
Si tratta di vermi piccoli e bianchi, filiformi, le cui uova si schiudono nella regione anale e che nelle femminucce si annidano tra le piccole e grandi labbra, nella zona vulvare. I vermi intestinali furono una delle malattie dei miei primi anni di vita, certo non dovuti a scarsa igiene o cattiva alimentazione, ma comunissima problematica legata all’età pediatrica. Pruriti al buchino del popò, disturbi gastroenterici e perdita di peso mettevano in allarme i miei genitori, che dopo la visita medica provvedevano al trattamento medicinale. Molti miei compagni di gioco colpiti dallo stesso malanno, invece, venivano agghindati con ridicole collane di spicchi d’aglio e masticavano a volontà in stile chewingum puzzo lentissime foglie di ruta, secondo il principio popolare per cui “la ruta ogne male stuta”. E sempre gli spicchi d’aglio e i rametti di ruta, a quanto mi raccontavano loro, se li ritrovavano andando a dormire sotto al capitale (cuscino). Del resto, aglio e ruta sono validi disinfettanti naturali, la cui efficacia era stata provata da secoli di applicazioni empiriche.
Rimedi naturali così efficaci da essere poi trasformati in ingredienti esoterici contro malocchio e negatività lungo l’antichità, il medioevo e l’età moderna, particolarmente prediletti da maghi e fattucchiere. Il passaggio successivo era la visita dalla nunna ca tagghia li jermi (la signora che taglia i vermi), una vera sciamana che abbinava la pranoterapia all’impiego di formule magico-sacrali. I miei compagni di gioco, che avevano fatto tale esperienza, mi riferivano suppergiù quanto segue e i loro racconti mi sono rimasti impressi: venivano distesi supini su di una banca (tavolo) e la guaritrice iniziava a tastare loro il pancino, pronunciando incomprensibili scongiuri. Poi, dopo aver intinto indice e medio della mano destra nell’olio d’oliva, la stessa donna tracciava sull’ombelico una serie di tre segni di croce, accompagnandoli con un Pater, Ave e Gloria in latino storpiato.
Poi, presa una matassa, tagliava un filo della lunghezza del corpo del bambino, ripiegava il filo in tre parti e iniziava a tagliarlo con le forbici in pezzettini di uguale misura che lasciava cadere in un bicchiere d’acqua. In questo modo, simulando ancora più vistosamente il taglio dei vermi, recitava una lunga formula in dialetto. I miei amichetti non ricordavano le parole precise del misterioso scongiuro e a nulla serviva la mia insistenza nel volerne sapere di più, affascinato com’ero, già da bambino, da tutto ciò che riguarda l’antropologia popolare (anche se all’epoca non sapevo si chiamasse così). A distanza di anni, mentre frequentavo la prima media, la mia prof. di lettere, Anna Maria Francone, ci parlò di questi usi popolari e in particolare della formula di liberazione dai vermi, che lei era riuscita ad estorcere a suon di suppliche ad una restia guaritrice. Formula che evocava uno per uno i giorni della Settimana Santa.
Quella stessa formula sarei riuscito a rintracciare qualche anno dopo, scoprendola essere comune a varie regioni del Sud Italia. La riporto nella versione galatonese, probabilmente mutila, perché almeno questa non vada perduta: Lunitìa santa, martitìa santa, mircutìa santa, sciuitìa santa, innirdìa santa, sàbatu santu, li jermi tagghiandu. A lu giurnu ti Pasca, lu erme si scàscia. A la tumènica maggiore, tira li jermi ti mienzu lu core. A la tumènica iàta, tira li jermi ti la custàta. Santu Paulu mia, ca a Roma scisti, comu la spata allu cintu purtàsti, comu tagghiasti la capu a lu serpente, cusì tagghia quistu erme, t’intra a questa entre (Lunedì santo, martedì santo, mercoledì santo, giovedì santo, venerdì santo, sabato santo, i vermi tagliando. Il giorno di Pasqua, il verme si distrugge. La domenica maggiore, togli di mezzo i vermi dal cuore. La domenica beata, allontana i vermi dalla cassa toracica. San Paolo mio, che andasti a Roma, come portasti la spada alla cintura, come tagliasti la testa al serpente, così taglia questo verme all’interno di questo ventre). I giorni menzionati sono i giorni che precedono la morte di Cristo e la sua resurrezione nel giorno di Pasqua.
Ripercorrendoli, la guaritrice evocava i momenti salienti della passione del Redentore, preludio alla sua vittoria sul peccato e sulla morte, insistendo implicitamente sui binomi “dolore-guarigione” e “morte-vita e prefigurando il medesimo passaggio alla “salute-salvezza” (nell’accezione latina di salus) per il paziente. Così pure l’ingiunzione ai vermi di allontanarsi da petto e cassa toracica esorcizzava il male racchiuso nei vermi, assimilabile ad un veleno mortifero cui non bisogna consentire la risalita verso il cuore. L’invocazione all’apostolo Paolo, inoltre, conferma come nel Salento di un tempo venisse chiesta l’intercessione del santo negli esorcismi contro gli animali, gli insetti e gli organismi nocivi per l’uomo. Da quanto presentato finora, poi, emerge un dato di fatto: le donne, in un’età segnata teoricamente dal maschilismo, si dimostravano le reali detentrici del potere familiare e sociale. Un potere semiassoluto, mediato direttamente da Dio, sulla vita e sulla salute delle creature da loro stesse generate.